Fino a domenica 10 febbraio Il Gabbiano di Anton Čechov ritorna a sorvolare sul palcoscenico del Teatro Carcano. Prima di essere brutalmente stroncato dalle pallottole dell’indifferenza e del dolore esistenziale, tornerà a convincere e a commuovere ancora una volta il pubblico. Lodato e accolto a pieni voti, vi raccontiamo lo studio di regia di Marco Sciaccaluga
Non esiste prevenzione politica peggiore di un’ingiusta censura, soprattutto quando a essere censurate sono le opere d’arte, i testi eterni che senza coordinate temporali attraversano ogni epoca, fino a raggiungere il fulcro di una quotidiana stasis sociale, che sia questa contemporanea o meno.
È così che Marco Sciaccaluga ha deciso di firmare per il Teatro Nazionale di Genova un classico teatrale čechoviano, in un modo pulito e senza ripensamenti che appesantiscano la celeberrima trama degli Arkadina-Treplev. Per la prima volta, l’Italia ha assistito a una scelta intellettuale molto fine: quella di rappresentare Il gabbiano nella versione originale del 1895, cioè quella più autentica, endemica e che precede la censura zarista.
Ci si potrebbe invero soffermare sin da subito sull’attenzione, o meglio dire sulle attenzioni registiche offerte al pubblico. Tutte le scelte sceniche, finanche gli stravisti e banali ingressi metateatrali, vengono qui assorbite sul palco con lineare naturalezza, senza pesare alla struttura evolutiva degli atti.
Una naturalezza che incarna grande professionalità e minuzie partorite nel nome di una tanto dimenticata tradizione, in questo spettacolo ripescata come i lucci di Trigorin sulla riva.
Quello di Sciaccaluga è un gabbiano svecchiato, rinnovato, e al contempo non stravolto, se non dalla pallottola spuntata di un bravissimo Konstantin, interpretato con una densità e una prepotenza attoriale perfetta dal giovane Francesco Sferrazza Papa.
Mentre Konstantin valca a piedi scalzi il suolo della tenuta, si percepisce la carnalità e l’immediatezza del sentimento che trafigge il personaggio disegnato dal sapientissimo Čechov. Irina Nikolaevna, la madre di Konstantin, interpretata con grande acume da Elisabetta Pozzi, matura un’esperta garanzia conoscitiva del testo e una dolorosa presa di coscienza validamente recitata.
Le scene, compattate da un sabbioso color ecru, si dipanano e si svolgono nell’umidità della steppa estiva, sotto il lucore lunare e avvolte dalla freddezza solare sovietica.
È in questo mondo che si vedono intrecciati i destini degli altri attori, tutti abilissimi ed eleganti, con dei costumi semplici e fedeli, incastonati sulle scene come ambre russe nei collier.
Trigorin, lo scrittore di fama, prende vita grazie a Stefano Sottospago, ancora una volta in grado di “far bouche” nel secondo atto con uno dei monologhi più celebri di tutto il teatro moderno. Trigorin contrappone la sua stessa immagine alla schiavitù della sua passione per la scrittura, di quell’eterno dissidio inevitabile che lo obbliga a un lavoro meccanico e tesaurizzato. Ogni sensazione per lui non può essere più goduta come tale, ma solo ed esclusivamente in funzione di un’efficace e futura trasposizione novellistica o romanzesca.
Vanno ricordati inoltre Federico Vanni nei panni di Petr Nikolaevič Sorin e Alice Arcuri in quelli della giovane e devastata Nina, fatalmente costretta raffigurare la metafora del gabbiano ferito a morte, la fanciulla derubata della sua giovinezza e dei propri sogni.
Ogni dialogo, finanche le più semplici battute, traboccano di drammatico autocompiacimento e del forte bisogno di essere smentiti, di manifestare la stima reciproca nei confronti di un nucleo familiare, fino al decrescere graduale di un’eccitazione che tenderà a una collettiva indifferenza.
Con pudicizia e pulizia, per una volta Čechov si respira nella sua più completa autenticità e questo merita di essere ricordato ed elogiato sopra ogni cosa!
Questo gabbiano vola a filo dell’acqua e si rispecchia in una società avvolta da un retrivo e illuso snobismo.
Si fatica soltanto ad avvertire la monotonia dei caratteri che dovrebbe percepirsi, ma dopotutto non è un male perché la maestria di un elegante far nulla si somma alla mostruosa e impegnata operosità che gli attori hanno sfoderato; paradossalmente, aldilà delle angosce, qui i vinti spariscono, e come animali moderni sopravvivono beandosi delle proprie sconfitte.
Più che la metafora anonima di un volatile marittimo, si respira la sintesi di una fenice risorta dalle ceneri della tradizione teatrale.
Consigliato assolutamente!