In una fantasia che rende tutta la complessità della realtà, Emanuele Aldrovandi scrive e Ciro Masella interpreta un generale che entra nelle pieghe della guerra, le più angosciose anche perché ci somigliano
Foto © Stefano Cantini
Le chiamano missioni di pace. Sono invasioni di territori da parte de eserciti in armi che tengono alti i vessilli di una democrazia da esportare. Sono petti gonfi di retorica (e galloni) ingolfati in uniformi militari, che sorridendo sciorinano certezze, che hanno sempre le stesse parole. La fame di distruggere “i selvaggi che hanno colpito al cuore la nostra civiltà”, un successo che farà il bene “anche degli stessi selvaggi che non si riconoscono nel regime dittatoriale che li opprime”. Parole che le guerre lungo la storia hanno insegnato a ripetere come un nastro che si avvolge costantemente su se stesso. Che ripetono anche soldati che non hanno bisogno di nome né di collocazione, per farsi exemplum di un copione tante volte già visto.
Quello che prelude all’entrata in scena di un generale, il migliore di tutti, grottesco e vistoso come il telefono fucsia che campeggia e calamita gli sguardi nella cupa scena ruvida di un accampamento militare. Sopra il quale un enorme e suggestivo salice fatto di tubi respira, pulsa in istanti di vita subitanei e improvvisi, che si specchiano in lampi e schegge di memorie di una realtà che ha ormai superato il teatro, in cui l’uomo col cappuccio di Abu Grahib (che il tempo ha trasformato in marchio commerciale) si sovrappone agli infiniti selfie di soldati che appoggiano trionfanti lo scarpone sul petto di cadaveri esposti come trofei di un safari hemingwayano.
Così, in scena al Teatro Elfo Puccini, appare Il generale, a cui Ciro Masella da le sembianze di un grottesco pupazzo quasi chapliniano, che farebbe sorridere e sembrerebbe pazzo, quando inizia a dare ordini surreali e inauditi. Regalare ai nemici i propri mezzi corazzati, piantare campi minati a casaccio, girando disarmati. Dovrebbe sembrare assurdo, ai suoi soldati (a cui in effetti tale sembra) e agli spettatori. Cui forse lo sembra un po’ meno. Usciti (o forse entrati pienamente) nell’astrazione che non fa distinzione tra una guerra vera (il contenitore posticcio di “missione di pace” – nonostante i titoli dei giornali e i giocattoli per bambini che lo specificano sulle confezioni di oggi, 2019 – cade presto) e un videogioco sparatutto, dove i morti non hanno corpo e vince chi ha la strategia più elaborata e inusuale, può capitare di crederci davvero, a questo generale assurdo accecato a tal punto dal bisogno di dimostrare il proprio valore, da elaborare strategie davvero inaudite. Seguirlo con una sorta di colpevole stupore lungo strade sempre più tortuose, mentre dispone a suo piacere dei sottoposti come del presidente, si prende cura di una pianta con amorevole devozione e considera decine di morti tra le fila del proprio esercito nulla più che un sacrificio necessario.
Fino a che non si arriva a sospettare che tutto questo non possa che avere un senso, un motivo più profondo, di cui il cinismo e la tattica militare sono un sintomo troppo vistoso per essere reale. E se il generale, l’emblema, volesse l’opposto di quel che ci si aspetta? Se fosse lui, proprio lui, ad autonominarsi il più grande pacifista della storia, a giocare a fare dio e scovare una propria, personale, fine di tutte le guerre: l’annientamento? Ma quella che ha la pretesa di essere la guerra delle guerre, l’ultima, perché nessun’altra debba più esserci, non può che finire lasciando sul campo nessun vincitore. Nemmeno quello di cui alla fine credevamo di aver scoperto il vero volto, rassicurati o forse angosciati dalla strada che sembravano aver preso le cose, forse persino nel profondo sollevati che la soldatessa delatrice fosse stata trasformata in danno collaterale (la guerra moderna ha un vocabolario curioso) prima di poterlo fermare. Scoprendo dentro di noi la messa in crisi dei nostri valori: può esistere, davvero, un bene superiore? Che forma ha?
Costruendo uno dei suoi noti e complessi – eppure limpidamente godibili – meccanismi a orologeria di rara acutezza, Emanuele Aldrovandi non ha però ancora finito di mettere tutto in discussione. Credevamo di avere capito dove il generale ci stava conducendo, di aver scelto da che parte stare? Eppure, come Dante insegna e Ciro Masella evoca – in una felicissima invenzione che in una frazione di secondo dà il senso di una regia curata, visuale e sagace, che cancella il didascalismo per creare frammenti di realtà e di sogno che si sovrappongono, di corpi e di immateriale, fantapolitica e un’attualità che ha ormai proceduto a grandi passi oltre l’immaginazione dell’arte – nel fondo dello sguardo di Dio c’è l’immagine del volto dell’Uomo, nel fondo del male c’è il bene e l’uno scolora nell’altro fino a non rendersi più riconoscibile. Salvezza ed egomania sono uno, e tra le due, ad essere redditizia e sognata da un uomo incapace di pensarsi nuovo non è la pace, ma la guerra.
Accanto a un Masella multiforme e che si direbbe sorprendente se non fosse che il suo valore non sorprende, compagni di scena di livello: Marzia Gallo è una soldatessa appassionata e vibrante, Michele di Giacomo un tenente impeccabilmente inetto (e forse sedotto). In una scena costruita per contrasto, fatta di luci irreali e dei suoni allegri di Angelo Benedetti, a spiccare è però la scenografia di Federico Biancalani, che costruisce un’idea d’artista muovendosi in equilibrio fra il sontuoso e il minuscolo, procedendo per oggetti concreti che si fanno simboli di una evocatività potente.
Così come lo è l’intero spettacolo, che in un momento in cui impera la fame e il bisogno di risposte facili che parlano alla pancia dissemina suggestioni angosciose. Dice che il terrorismo non esiste in apertura, e racconta il male in chiusura, senza spezzare il cerchio che riconduce, inesorabilmente, l’uno all’altro. E forse è proprio questo che serve a un paese e a un tempo abitato da generali che ripetono che “le persone in gamba non hanno bisogno di pensare”.