Elisa Schiavina, artista e psicologa che indaga da entrambi i fronti l’mmaginazione come strumento di trasformazione e cambiamento, per il suo esordio su Culktweek ha deciso di raccontarci il suo incontro, memorabile e struggente, con Luigi Ontani nel suo studio di Roma.
12 giugno 2024. I fiori, come ci consiglia Massimo Kaufmann che ci accompagna, sono la cosa più adatta da portare in dono a Luigi Ontani. Alle 16 circa si va in Via della Ripetta, vicino a Piazza del Popolo, a farsi preparare un mazzo grande. Gli indaco, le viole e i lillà, attaccati a steli verdissimi cadmio, scorrono tra i polpastrelli della donna che ci accoglie nel negozio, profumata com’è lei e profumato com’è anche il suo negozio. Ci suggerisce combinazioni, aggiunge vegetali allungati a una composizione elegante, accoglie subito la proposta di inserire un girasole, perché al centro ci sta bene uno schiaffo di giallo. Che poi, quei fiori, dovevano piacere a Kaufmann, prima di tutto, e gli sono piaciuti; ci eravamo dati appuntamento pochi minuti dopo, e ci accoglie con un gran sorriso aperto, dove a sorridere è proprio l’insieme del volto, comprese le narici da cui si respira, un sorriso inspirato e aspirato, un sorriso bello.
Ci incamminiamo, lui sa la strada e ci guida, arriviamo accanto ad un palazzo del quale mi affascinano stralci di frontoni, molti dei quali disintegrati al punto da parere puri simboli, pitture tra il marmoreo e il rupestre. Giriamo l’angolo, poi bussa alla porta dello studio, toc toc ma tre volte. Avevamo appuntamento alle 17 e sono le 17. Penso che è un numero fortunato, per me, il 17.
Ci apre quasi immediatamente Adil, un uomo sorridente, con un sorriso d’occhi e denti ovviamente diverso da quello di Massimo, perché i sorrisi sono tutti diversi. Ci invita a entrare e ci dice che il Maestro arriverà a breve. Siamo una decina, tutti molto diversi per età e vite, ma posso avvertire come reale, permeante e quasi fisico un grande senso di rispetto, quello che potrebbe precedere una catarsi al contrario, mescolato ad una gioia eccitata.
Ontani arriva quasi subito, bellissimo e verticale in questa tunica violacea con tocchi più chiari, una spilla rotonda a chiuderla sul collo. Procede adagio nello spazio, studia forse la composizione di noi altri, di fronte a lui, dodici persone rosse in viso d’emozione, chi più e chi meno. Prende e indossa una sua opera-maschera rettangolare, allungata, diventa una persona altra, ci osserva dai fori destinati agli occhi; immagino il suo nervo ottico prendere direzioni diverse, spero di incontrar le sue pupille. Sembra un’apparizione, invece è un uomo e poco dopo si toglie la maschera, e ci saluta, ci accoglie. Il luogo in cui ci troviamo fu lo studio di Antonio Canova, del quale ha mantenuto le antiche travi a soffitto, alcuni fregi all’ingresso e l’aria maestosa come un luogo antico che è stato e che ha continuato ad essere magnifico.
Le opere sono centinaia, e la costruzione dello spazio pare quella che si potrebbe trovare all’interno di un mausoleo, a prima vista, o almeno questo è quello che è parso a me, anche se effettivamente non sono mai stata in un mausoleo, e poi nessuna definizione di quel luogo mi pare calzante. Osservo tutto, mi trovo ad avere occhi preziosi, e trovo preziosi gli occhi degli umani che mi stanno intorno, e delle opere, spesso raffiguranti uomini a figura intera.
Ceramica-materia, segno e spirito si alternano continuamente ai miei occhi, e lui intanto ci racconta, “Gli avi sui travi”, opere dedicate ad artisti che lui ha conosciuto e amato, che non sono più tra i vivi e che lo osservano, e ci osservano, come amici bonari vestiti a festa per un’occasione bella che li vede tutti coinvolti. C’è Gino De Dominicis, che pare intento nel realizzare il suo Tentativo di volo, c’è Boetti che spunta dalla sua opera Pisciarsi in bocca, e appena sotto di loro idoli appesi quasi a mo’ di protettori, troviamo una fontana-dea che apre lo spazio come un portale, un lasciapassare verso una sala densissima di altre opere. Lui ci spiega e ci dispiega, passa tra noi aprendo varchi, racconta, Adil si rivolge a lui e a noi completando il suo parlare, aggiungendo dettagli, rispalancando a tratti il sorriso diventato solito nell’arco di pochissimo.
Parla di sé definendosi dilettante, il Maestro, e nel mentre ci offre acqua fresca, servita in bicchieri di vetro tutti colorati a punti e cerchietti, caleidoscopi di meraviglia anch’essi, e ci offre dolcetti preparati da Adil, che ce li porge in scatole di latta, ci dice di farli passare tra noi, e poi arrivano i datteri, dolcissimi sapidi e densi, e non ci troviamo neanche in imbarazzo a gettarne i noccioli. Ci mostra opere costruite in pelle resa trasparente dalla lavorazione, simulacri, marionette, ciascuna nata come, mi è parso di capire, quasi tutte le sue opere, prima dal disegno, che si fa parola nella mente, parola giocata, usata in modo plastico, modellata sul soggetto, e poi dall’intervento sulla materia, scultorea o pittorica che sia. Mi colpiscono grandi tende modulari, trasparenti vesti sulle alte finestre, e passava una gran luce bella quel giorno, e lui ne parla come di un’opera divertente perché i moduli permettono di aggiungere e togliere, di giocare, e il gioco è un tema che l’arte viva di quest’uomo solletica, un gioco generoso verso l’imponderabile e le sue combinazioni. I confetti dorati che Ontani posiziona apparentemente sparsi per lo studio-museo, ci spiega, che hanno anche il compito di decidere il limite dello spazio: delimitano, creando la giusta separazione per l’incontro dell’opera.
Adil, a quel punto, ci porge un mazzetto di post-it rosa shocking e ci chiede di scrivere i nostri nomi, ognuno di noi, uno dopo l’altro, lo fa, e intanto l’artista ci parla, ci guarda negli occhi, poi si siede al tavolo che porta ancora sopra di sé i bicchieri caleidoscopio di prima e incomincia a scrivere con un pennarello dorato, su una cartolina che porta una sua opera e l’anno 1992 di stampa, il primo nome. Scrive il nome Viktoria, poi scrive Viva arte viva, e lascia uno dei suoi disegni, e noi restiamo increduli a guardarlo fare questo gesto, siamo in tanti, e lui lo fa per dodici volte, in maniera sempre diversa, con una gioia che trapassa il tempo, per farci un dono. Come un dono sono le tante cose che, quel giorno, ho imparato da quest’uomo.