Un Babbo Natale assai generoso vi porta ben 20 libri a tema, tra ieri e oggi. Ci sono grandi poeti e illustratori di vaglia, classici, gialli, fiabe e racconti dall’Inghilterra all’Ucraina agli States passando per casa nostra. Da leggere, sfogliare, regalare con gli auguri di Cultweek
Le mie strenne di Natale, i libri che regalo quest’anno saranno Inganno di Stato. Intrighi e tradimenti della polizia politica tra fascismo e Repubblica di Giorgio Boatti (Einaudi); C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta di Enrico Deaglio (Feltrinelli); La nevicata del secolo. L’Italia del 1985 di Arnaldo Greco e Pasquale Palmieri (Il Mulino); Miracolo a Milano. Parole, immagini e immaginari, a cura di Valentina Fortichiari e Sergio Seghetti (Oligo); e Dischi volanti. 40 album alieni da Duke Ellington a Lady GaGa di Daniele Cassandro (Curci). Li recensisco il prossimo mese, non voglio spendere parole affrettate: saranno i miei compiti per le vacanze. Per questo mese, faccio pausa con alcuni dei libri dedicati al Natale che ho letto ieri e oggi. Ci troverete molte opere note e qualche testo insolito. Spero che vi siano d’aiuto per letture e regali last minute.
A Natale tutti insieme, Il Post/Iperborea, 2023
Il perfetto libro di conversazione per i banchetti delle feste, nella pregevole collana “Cose spiegate bene” del Post. Per sapere tutto sulle renne, intervenire in difesa di Erode, stupire i commensali raccontando che l’espressione “Merry Christmas” è legata al tasso alcolico, aggiornarsi sulle differenze fra i calendari giuliano e gregoriano, capire il finale di Una poltrona per due (è il film che da circa trent’anni trasmettono le reti generaliste, quand’ero ragazzo a Natale davano La vita è meravigliosa e a Santo Stefano Operazione sottoveste, chissà se la tradizione resiste), scoprire chi ha inventato Santa Claus e perché ci si bacia sotto il vischio (ma lo fa davvero qualcuno?). Altre curiosità e informazioni sparse: film e canzoni di Natale, l’origine del panettone e dell’abete adornato, le differenze tra i presepi, le intolleranze al Natale, gli orridi maglioni festivi, le ricette e altro ancora. Un’utile alternativa alla tombola.
Alan Bradley, Il Natale di Flavia de Luce, traduzione di Alfonso Geraci, Sellerio, 2013
«La pania, come qualsiasi chimico pratico saprà spiegarvi, può essere facilmente prodotta facendo bollire la corteccia intermedia dell’agrifoglio per otto-nove ore, seppellendola quindi sotto una pietra per due settimane, poi lavandola e riducendola in polvere in acqua di fiume e infine lasciandola fermentare. Questa roba è stata adoperata per secoli dagli uccellatori, che la spargevano sui rami degli alberi così da intrappolare i volatili canterini che poi rivendevano in città».
Lo spiega la protagonista di questo delizioso giallo “all’inglese”, l’undicenne Flavia de Luce, appassionata di chimica e, in particolare, di veleni e fuochi d’artificio. Lei la pania l’ha fabbricata, dieci volte più appiccicosa della ricetta originale, per spalmarci i comignoli di casa e catturare Babbo Natale quando atterrerà con la slitta. Finirà per incollare alla canna fumaria uno degli assassini della diva Phyllis Wyvern, l’altro si romperà l’osso del collo cadendo dal tetto. I topoi del vecchio giallo alla Agatha Christie ci sono tutti (e infatti viene in mente Natale di Poirot), ma riadattati con sapienza artigianale e tocco amabile.
La magione avita Buckshaw che avrebbe urgente bisogno di restauri. Il colonnello de Luce, vedovo (la moglie Harriet è morta dieci anni prima, durante una spedizione in Tibet), compassato («Solo gli stranieri piangono») e naturalmente spiantato, che tira avanti vendendo mobili e suppellettili di casa. Il tuttofare Dogger dal misterioso passato e dall’insospettabile cultura. La burbera governante e discutibile cuoca signora Mullett. Zia Felicity che è stata agente segreto britannico nella seconda guerra mondiale. Le due sorelle maggiori Daphne e Ophelia (Daffy e Feely), con le quali Flavia battibecca di continuo. E una troupe che ha preso in affitto Buckshaw per girarci un film, portando nella campagna inglese il delitto.
Dulcis in fundo, una tempesta di neve che isola la magione dal resto del mondo, mentre metà del villaggio vicino è ospite dei de Luce per una rappresentazione di Romeo and Juliet (alla fine salterà fuori un prezioso primo quarto shakespeariano, valore approssimativo un milione di sterline, e il colonnello de Luce nella pagina forse più bella del romanzo reciterà il monologo di Romeo davanti a Giulietta morta).
Ravviva tutte queste peripezie la candidamente irruenta Flavia, curiosa e impertinente, detective e chimica. Pippi Calzelunghe che fa la parte di Sherlock Holmes (non è farina del mio sacco, lo suggerisce non a torto il risvolto del libro). Giallo di piacevole intrattenimento, colto e accurato quanto basta, ben scritto e ambientato. L’autore, Alan Bradley, è canadese (Toronto, 1940). La serie di Flavia de Luce, apprendo, è stata tradotta in 31 paesi.
Josif Brodskij, Poesie di Natale, traduzione di Anna Raffetto, Adelphi, 2004
Amo Josif Brodskij, ma il valore di questa raccolta (diciotto poesie composte fra il 1962 e il 1995) è diseguale. Come disomogeneo è il nucleo tematico: poesie scritte durante il periodo natalizio, ma non obbligate all’ossequio della ricorrenza, fino al 1980; poesie sulla Natività da allora in poi. Più pacificati e lievi, questi ultimi versi hanno una loro grazia (e punte di grande tensione lirica, come la Ninna-nanna) ma appaiono più manierati e arresi, quasi cartoline d’autore che non aggiungono e non tolgono niente alla grandezza di Brodskij. Sento più vicini i componimenti fino al 1980. Dalla malinconica visione moscovita del 1962 (Romanza di Natale) alla bellissima 1° gennaio 1965:
I Magi scorderanno il tuo indirizzo.
Non brilleranno stelle sul tuo capo.
E solo del vento il rauco ululato
avvertirai come nei tempi andati.
Leverai l’ombra dalle spalle stanche
spegnendo la candela prima di coricarti
giacché sono più giorni che candele
quello che ti promette il calendario.
Cos’è questa? Tristezza? Chissà, forse.
Un motivo che conosci a memoria.
Che sempre si ripete. E sia.
Che continui così.
E risuoni anche nell’ora estrema,
come la gratitudine degli occhi
e delle labbra per ciò che qualche volta
ci costringe a guardare lontano.
E fissando in silenzio il soffitto,
perché visibilmente la calza resta vuota,
capirai che tanta avarizia è solo indizio
del diventare vecchio.
È tardi ormai per credere ai prodigi.
E sollevando lo sguardo al firmamento
scoprirai sul momento che proprio tu
sei un dono sincero.
Il canto di Brodskij si fa sarcastico e amaro, ribelle e accusatorio nel poemetto Discorso sul latte versato del 1967, scopertamente antisovietico. Uso di proposito questa parola odiosa: adoperata nel crepuscolo del breznevismo dalla critica di regime e dai giudici (l’altra accusa era di “parassitismo sociale”) per condannare il poeta alla deportazione e alla galera. E ce ne vuole di coraggio, lui reduce da due anni di carcere, per non arrendersi e non ovattare i versi. La stessa determinazione che lo aveva spinto, ancora adolescente, a imparare il polacco per leggere Milosz, ad apprendere l’inglese per tradurre John Donne.
Anno Domini, del 1968, risuona di atmosfere bulgakoviane:
La provincia celebra il Natale,
S’avvinghia il vischio alla magione
del Proconsole, le fiaccole fumano
all’ingresso. Nei vicoli giocosa confusione.
Una folla stordita, oziosa, sporca,
si accalca in festa sul retro del palazzo. (….)
Ma arriva l’ora dell’esilio, quel 1972 in cui Brodskij viene caricato a forza su un aereo, imbarcato su un volo per Vienna, espulso e privato della cittadinanza. Resta, a futura memoria, l’ultima poesia russa, 24 dicembre 1971:
Siamo tutti, a Natale, un po’ Re Magi.
Negli empori, fanghiglia e affollamento.
Gente carica di mucchi di pacchetti
mette un bancone sotto accerchiamento
per un po’ di croccante al gusto di caffè:
così ciascuno è cammello e insieme re. (…)
E resta, di umido e triste fulgore, il poemetto del primo Natale da esule. Si chiama Laguna ed è ambientato a Venezia, città che Brodskij adotterà, alla quale dedicherà un libro assai bello, Fondamenta degli Incurabili, e dove sceglierà di essere sepolto:
L’Adriatico, sospinto nella notte dal vento
dell’Oriente, colma la vasca da bagno del canale,
fa oscillare le barche come culle; un pesce
anziché un bue sta notte dopo notte al capezzale,
e, mentre dormi, con i suoi raggi è la Stella del mare
che smuove appena le tende al davanzale.
È così che vivremo, spegnendo la madida fiamma
della grappa con l’acqua morta della brocca
di vetro, tagliando pesce dozzinale, anziché l’oca
volatile, così che possa saziarci, oh Redentore,
il Tuo avo cordato, nella notte d’inverno,
in un paese che a morte è condannato.
Natale senza neve, addobbi, abeti, in riva
a un mare che la carta geografica ha schiacciato;
lasciata andare a fondo la valva di mollusco,
celando il viso, ma ammaliando col dorso,
il Tempo fuoriesce dalle onde e cambia
la lancetta della Torre – quella soltanto.
Città che affonda, dove la solida ragione
d’improvviso si scioglie in un ciglio bagnato,
dove l’australe fratello delle nordiche sfingi,
un leone dorato di ali e pure acculturato, non griderà
“aiuto!”, chiudendo il suo libro bruscamente,
ma affogherà felice tra sciabordio di specchi. (…)
Ho lasciato per ultima la poesia che amo di più, senza titolo, datata 1971 e composta a Jalta. Il Mar Nero come un presagio di esilio (come in Mandels’tam che ricorda Ovidio), un futuro che è già alle spalle:
Il secondo Natale in riva al Ponto
che non è mai ghiacciato. La stella
dei re Magi sul recinto del porto.
Non potrò dire di non riuscire
a vivere senza te – visto che vivo.
Come da questa pagina è evidente.
Esisto; trangugio la mia birra, imbratto
fogli, e l’erba, la calpesto.
In fuga al Sud sotto l’assalto
dell’inverno, nel caffè da cui noi,
felici come di norma provvisoriamente,
fummo scagliati da uno scoppio silente
nel futuro, adesso disegno con le dita
il tuo profilo sul marmo per la povera gente;
saltellano le ninfe in lontananza
sollevando il broccato intorno ai fianchi.
E allora, oh dèi – se una chiazza bruna
alla finestra è simbolo della vostra presenza –
qual era mai il messaggio, la sua essenza?
Il futuro annunciato ora è qui, e lo si può
accettare; cade un oggetto, il violinista
esce, la musica finisce, e il mare sempre
più pieno di rughe, i volti pure.
Ma senza vento.
Un giorno sarà lui – ahimè – non noi,
a rovesciarsi sulla passeggiata,
ad avanzare nonostante i “non voglio!”,
sollevando creste di spuma sopra il capo,
verso il luogo dove tu bevevi vino
e dormivi in giardino e asciugavi la blusa:
sfascerà i tavolini, preparerà ai mitili futuri
il suo fondo turchino.
Il fisico Freeman Dyson, interrogato sul perché avesse imparato il russo, rispose: «Per poter leggere i grandi capolavori in lingua originale». Vorrei aver fatto come lui, perché la perfezione dei versi di Brodskij, nella pur bella traduzione di Anna Raffetto, in italiano si intuisce soltanto, come di fronte a uno specchio appannato.
Dino Buzzati, Il panettone non bastò, Mondadori, 2004
Scritti, racconti, fiabe natalizie. Pubblicati sul Corriere della Sera e altre testate fra il 1934 e il 1971. Alcuni raccolti in volume, ma per la maggior parte inediti. Per lo più prose d’occasione tra l’elzeviro, la cronaca, il racconto spiccio e quasi improvvisato: la tecnica del presepe, un Natale estivo e straniato ad Addis Abeba (1939) oppure in mare durante la guerra, in montagna dopo un disastro aereo, tra le torri di regali del nascente consumismo, con qualche raro e pudico abbandono autobiografico (Mio fratello aprì un pacchetto, Lo strano boxer sul comodino).
Predominano il rimpianto del buon vecchio Natale di una volta, semplice incantato e soltanto per i bambini, il fastidio per la frenesia da regali, la tristezza e il senso di solitudine, la convinzione ingenua del “giorno in cui siamo tutti più buoni”, gli scroogismi, l’elogio della fantasia contro la razionalità con la domanda neanche tanto retorica «come può essere sopportabile una vita che non sia piena di illusioni e di paure?» (Bonifica di Natale, con i bambini che hanno smesso di credere a Babbo Natale e sono diventati «abominevoli cretini» e «capaci di attraversare a mezzanotte e da soli un antico castello abbandonato»). Predomina un tono imbarazzato e perbenino, come di chi parli ai bambini o reciti i sentimenti in un compito in classe.
Qualche rara memorabile impennata: Il panettone non bastò con il livido Natale di guerra del dentista Anfossi; il feroce Rabbia di Natale con l’amante abbandonata che attende invano un segno da lui («Quasi le nove. Ormai dalla zia non mi aspetteranno più. Saranno già a tavola. Tutti allegri, tutti pieni di appetito. Maledetto Natale. Almeno venissi sapere che lui è morto»). Preferisco il grande Buzzati che si kafka addosso.
Da decenni non leggevo Agatha Christie. Casi ingegnosi, più indovinelli o sciarade animate che delitti; un’aria campagnola anche nelle ambientazioni urbane; e atmosfere antiquate la cui piacevolezza vela o nasconde pensieri e atteggiamenti retrivi. Come le caramelle Moretto di quand’ero bambino, una goccia di veleno nel cartiglio che avvolge il dolcetto croccante.
Sei racconti, cinque con Hercule Poirot e il sesto con Miss Marple. Il caso del dolce di Natale è niente più che un garbato divertissement: un rubino sottratto da una ballerina a un principe da operetta che saltava la cavallina prima di accasarsi, e che riappare a sorpresa in un Christmas pudding. Un delitto di gelosia con echi otelleschi (Il mistero della cassapanca spagnola) con uno stiletto italiano come arma del delitto e un mobile “esotico” in cui viene occultata la vittima. Degna di nota la figura femminile: Margaretha Clayton, seduttrice involontaria e chissà quanto inconsapevole, che la Christie apparenta a Desdemona. Un irascibile affarista ucciso nella sua magione di campagna, e potrebbe essere torbido intrigo di interessi ma è alla fine l’esasperazione di un mite (Una donna sa…, tra gli ingredienti l’ipnosi che farà la sua comparsa anche in Il sogno). Un torbido intrigo con due fratelli, sullo sfondo di un ristorante (La torta di more). E il delitto più intricato di tutti ai danni di una vecchia eccentrica, in una casa-monstre (La follia di Greenshaw) svelato con pura forza di ragionamento (tutto oliato, tutto assai artificioso) da Miss Marple.
Un ‘900 minore narrato con uno sguardo ottocentesco. Molte eccentricità di derivazione dickensiana (anche Poirot è un eccentrico, meglio ancora un “eccentrico buffo”, e quanta mite xenofobia nel ridicolizzare lo straniero) e molto classismo (i colpevoli sono spesso cacciatori di dote, parenti squattrinati, segretari e domestici). L’Italia compare, oltre che nello stiletto, con un accenno allo Staglieno di Genova (mostruosità architettoniche) e con il cappello di paglia messo ai cavalli da vettura. A Natale, nei racconti della Christie, si mangia zuppa d’ostriche e rombo.
Moray Dalton, Natale con delitto, traduzione di Dario Pratesi, Polillo, 2021
Un giallo inglese dell’età dell’oro del mystery, a.d. 1931, di solida fattura, trama discretamente complicata, buona scorrevolezza e convenzioni q.b. Il 23 dicembre, nella magione di campagna del possidente George Tunbridge, a Laverne Peveril, dopo cena padroni di casa e ospiti giocano a nascondino: le luci di casa resteranno spente per venti minuti, prima che suoni un gong e la caccia cominci. Un grido interrompe il gioco alle prime battute: Hugh Darrow, amico del padrone di casa e cieco per un incidente bellico, nel silenzio della galleria dov’è nascosto ha sentito uno sgocciolio sospetto e, a tentoni, si è imbattuto in un cadavere. La vittima, uccisa con una pugnalata al cuore, è Edgar Stallard, scrittore di bestseller, dongiovanni piuttosto brutale e, si scoprirà nel corso delle indagini, ricattatore: scopriva cold cases imbarazzanti e minacciava di rivelarli nei suoi libri, se il suo silenzio non fosse stato pagato.
Conduce le indagini il sergente Lane della polizia locale, accanto all’amico Hugh Collier, ispettore di Scotland Yard in vacanza. Ma Collier viene allontanato e al suo posto arriva un borioso e unilaterale collega londinese, mentre Lane viene messo fuori gioco da una fuga di gas nella camera dove alloggia. Mentre si sta ristabilendo in ospedale, viene avvelenato da una coppetta di panna all’arsenico. I sospetti di Scotland Yard si concentrano su Darrow, che dopo la scoperta del cadavere ha riacquistato la vista ma non lo ha detto a nessuno, e il reduce viene arrestato.
Il movente lo avrebbe: anni addietro una sorella, giovane infermiera, era stata sedotta e abbandonata da Stallard, e si era suicidata. Intanto un’amica innamorata di Darrow, Ruth Clare, ha ingaggiato assieme agli avvocati che lo difenderanno anche un detective suggerito da Collier, Hermann Glide: un ometto frenetico con un passato bizzarro (è stato illusionista e medium) che manipola costantemente una pallina di cera. Glide, seguendo le intuizioni del povero Lane ignorate da Scotland Yard, troverà la colpevole, che non si rivela.
Personaggi convenzionali nella loro anticonvenzionalità: il cugino del padrone di casa, il pomposo e attempato sir Eustace Tunbridge, would be sposo dell’avvenente e spiantata ragazzina Diana Storey. La ragazzina che ha una tresca con l’autista russo del promesso sposo, fuoriuscito rovinato dalla rivoluzione, e assieme a lui scappa nel corso della notte. La nevrotica moglie dell’anfitrione, Pearl. Gli scrocconi Haviland, lui con le sopracciglia tinte e l’aria da poseur artistoide, sua sorella Angela cacciatrice di inviti e, se del caso, di dote. Circola, dato insolito per quegli anni, una velata critica del classismo e dell’arroganza dei bennati, che condiziona anche il lavoro della polizia. Se ne ricava la convinzione che le magioni di campagna inglesi non siano i migliori posti da frequentare.
Constance Fenimore Woolston, Vigilia di Natale, traduzione di Edoarda Grego, Sellerio, 2009
«Nel 188* il Console americano a Venezia abitava al secondo piano di un antico palazzo sul Canal Grande. Era il piano che gli italiani chiamano “nobile”. Al di sotto di questo “ piano nobile” c’era un ampio piano terreno, o, piuttosto, “acquatico”, il cui pavimento, solo leggermente al di sopra del livello del canale, era sempre umido e, spesso, bagnato».
Alla vigilia di Natale il Console Peter Senter di Rochester, New York, e sua sorella Barbara “la Consolessa”, danno una festa (A Christmas party è il titolo originale del racconto, pubblicato nel 1892).
Cinquanta ospiti di cui trenta bambini, un grande albero di Natale, musicisti, distribuzione di doni, danze, canti (We three kings of Orient are e Yankee doodle). E l’apparizione a sorpresa di uno straordinario clown acrobata che delizia tutti: il gondoliere Ercole per cui stravede la governante Carmela. Ma la polizia bussa alla porta: stanno cercando un uomo che ne ha ucciso un altro in un caffè di Rialto, alcuni testimoni lo hanno visto dirigersi verso il palazzo. Le ricerche sono vane e, finita la festa, i Senter troveranno (sotto, al “piano acquatico”) pugnalato l’anziano cuoco Giorgio, semisoffocato il mercante (polacco? armeno? ebreo?) di antichità, colpito alla testa il gondoliere Ercole, scomparsa la servitù (sono stati legati e nascosti nella legnaia, uno dei servi addirittura affidato alle acque come Mosè, a bordo di una gondola).
Chiusa in un ripostiglio c’è Carmela: giovanile e scattante, si rivelerà una vecchia travestita da giovane (con parrucca, belletto, un corsetto-armatura). Carmela è la madre del misterioso assassino, che intanto ha trafugato i risparmi della Consolessa, nascosti nel cassetto segreto di un armadio antico. Il figlio di Carmela, lo avrete capito, era il clown.
Un racconto abile e blandamente perturbante: un falso poliziesco, piuttosto un mystery alla Dickens o al modo di Wilkie Collins. Pieno di indizi abilmente dissimulati, attratto dal gusto del gotico (il palazzo veneziano come una sorta di castello di Otranto, con la tortuosità dei passaggi e degli ingressi, le porte nascoste nella tappezzeria, i ripostigli e i nascondigli, il “piano acquatico” così simile a una segreta) e attento al gioco delle apparenze e delle mascherature, al “niente è come sembra”.
Due figure di donne rimarchevoli: volitive e ancillari, più intelligenti degli uomini ma a loro votate e sacrificate.
Una Venezia stilizzata e teatrale: tutta concentrata nel palazzo, con la città come dietro le quinte, un altrove da cui emergono comparse (poliziotti, soccorritori, un medico). E nomi italiani vagamente posticci, come da melodramma: Ercole, Carmela, Beppina.
Constance Fenimore Woolson (1840-1894) era nipote di James Fenimore Cooper, l’autore dell’Ultimo dei Mohicani. Come il nonno, fu scrittrice di buon successo: “femminista in pectore” la definisce Edoarda Grego nella prefazione. Visse in Italia dal 1880 in poi, amò Henry James sperando di esserne ricambiata, morì quasi certamente di morte volontaria, gettandosi dalla sua camera d’albergo a Venezia. Eugenio Baroncelli, che la racconta nel suo Mosche d’inverno, ricorda che Henry James la trasformò in un personaggio del Carteggio Aspern. E che fu sepolta al Cimitero degli Inglesi a Roma come una delle eroine di James, Daisy Miller.
Walter Fochesato, Il campanile scocca la mezzanotte santa, Interlinea, 2018
Natale in poesia. Antologia dal IV al XX secolo, Interlinea, 2006
La casa editrice Interlinea di Novara è l’unica in Italia, che io sappia, ad avere una collana letteraria dedicata al Natale, “Nativitas”, che nel corso degli anni ha pubblicato Dickens, Santucci, Soldati, Guareschi, Stevenson, Vassalli, Rigoni Stern, Mancinelli, Dostoevskij, Pirandello, Chiara, Dumas, Pontiggia e molti altri, per quasi cento titoli.
Scelgo, per rendere omaggio alla loro meritoria costanza, due antologie poetiche. La prima, Il campanile scocca la mezzanotte santa, è dedicata alle “poesie di Natale che abbiamo letto a scuola” anche se non me ne viene in mente quasi più nessuna, a parte quella di Guido Gozzano che dà il titolo alla raccolta. Ve la ricordate?
-Consolati Maria del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
Sì, certo, c’è l’Ungaretti natalizio che
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade.
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle.
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un angolo
e dimenticata.
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono.
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.
Sì, certo, c’è il Pascoli di
Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ma gli altri? Erano nomi noti un tempo, frequenti da trovare nei libri delle elementari: Camilla Del Soldato, Milly Dandolo, Renzo Pezzani, Zietta Liù, Lina Schwarz, Diego Valeri. Nomi perduti, questa antologia può essere un’occasione, rinunciando per una volta al trivial pursuit e simili, per sfidarsi fra coetanei (necessariamente non più di primo pelo) per vedere chi ricorda che cosa di queste rime facili facili, per i bambini che siamo stati, con il bianco perfetto della neve protagonista assoluto, dallo schiudersi dell’inverno alle ultime feste. Poesie d’occasione, a cui cedevano a volte anche superstar del verso come D’Annunzio, Quasimodo e Saba.
Meno giocosa e rigattiera e più istituzionale e sontuosa, ma per niente scontata, Natale in poesia che prende le mosse da sant’Ambrogio e, passando per il nuovo italiano ancora vernacolare di Iacopone, approda a un altro santo, Alfonso Maria de’ Liguori (Tu scendi dalle stelle), per poi toccare il romanticismo (Wordsworth, Novalis, il nostro Manzoni) e, sfiorando tutto l’Ottocento, dedicare una parte corposa al Novecento. L’elenco è lungo: segnalo almeno Péguy, Eliot, Pound, Williams, Yeats, Rilke, Reverdy, Pasternak, Cummings, Auden, Lowell tutti resi con traduzioni accurate. E molti dei nostri maggiori, da Montale a Sereni, da Saba a Betocchi, da Quasimodo a Luzi e Sinisgalli.
Scelgo, per mio gusto, due poesie sideralmente opposte fra loro. La prima è un sarcastico sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, La viggija de Natale:
Ustacchio, la viggija de Natale
Te mmettete de guardia sur portone
De quarche mmonziggnore o ccardinale,
E vvederai entrà sta priscissione.
Mo entra una cassetta de torrone,
Mo entra un barilozzo de caviale,
Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.
Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
L’oliva dorce, er pesce de Fojjano,
l’ojjio, er tonno, e l’inguilla de Comacchio.
Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano,
Te llì t’accorgerai, padron Ustacchio,
Cuant’è ddivoto er popolo romano.
La seconda offre uno scarno e insolitamente religioso Bertolt Brecht:
Oggi siamo seduti, alla vigilia
di Natale, noi gente misera,
in una gelida stanzetta,
il vento corre fuori, il vento entra.
Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario.
Nikolaj Vasil’evič Gogol’, La notte prima di Natale, traduzione di Paolo Nori, Garzanti, 2024
Il più bel racconto delle festività, Dickens non me ne voglia, ha “l’allegria ingenua e furba”, Puskin dixit, di questo piccolo capolavoro. Nikolaj Gogol’ lo scrisse tra la fine del 1831 e l’inizio del 1832 per la raccolta di novelle Le veglie alla fattoria vicino a Dikan’ka che gli diede la fama. E nel comporlo i tipografi si sbellicavano dalle risate.
Il diavolo cavalca sopra i cieli dell’Ucraina. A prima vista assomiglia a un tedesco, con «una faccetta stretta, sempre in movimento, che annusava tutto quello che le capitava a tiro e che finiva con un grugno rotondo come quello dei nostri maiali; le gambe erano così sottili, che se il sindaco di Jareskov avesse avuto delle gambe del genere, se le sarebbe spezzate alla prima danza cosacca». Ha la barba di capra sotto la faccia, le corna piccoline che spuntano sotto la testa ed è nero come uno spazzacamino. E gioca un brutto tiro agli uomini in giro a fare bisboccia, incuranti del ghiaccio e del gelo; alle ragazze e ai ragazzi che sono usciti per intonare allegramente i canti natalizi e fare la questua nelle case del villaggio; agli spasimanti che si dirigono verso la casa della strega, la madre del fabbro Vakula innamorato della bella Oksana.
«Nel frattempo, il diavolo si stava avvicinando, furtivo, alla luna, e aveva già allungato una mano per prenderla, ma d’un tratto l’aveva ritirata di scatto, come se si fosse scottato, si era messo la dita in bocca, aveva scalciato, era corso nella direzione opposta, aveva fatto ancora un salto e aveva ritirato di scatto la mano. Tuttavia, nonostante tutti questi insuccessi, il furbo diavolo non l’aveva finita, con le sue birichinate. Presa la rincorsa, d’un tratto aveva afferrato la luna con le due mani, facendo delle smorfie e sbuffando, come un contadino che, a mani nude, prenda una brace per accendere la pipa; alla fine se l’era nascosta, in fretta, in tasca e, come se lui non c’entrasse, aveva continuato per la sua strada». Un pezzo di bravura che tornerà in mente al nostro Tommaso Landolfi quando, nel suo Racconto del lupo mannaro, farà compiere la stessa impresa, caricandola di risvolti più acri e sgradevoli, a due amici che non possono patire la luna.
Con la luna scomparsa e una tempesta di neve che il diavolo suscita per sovrappiù, il traffico degli umani nel villaggio di Dikan’ka impazzisce. Gli sbevazzoni diretti verso l’osteria o verso la casa del diacono che offre un rinfresco smarriscono la strada. E i farfalloni che fanno la corte alla strega arrivano alla sua porta uno dopo l’altro e, all’insaputa l’uno dell’altro, vengono nascosti in sacchi e ripostigli (c’è, in questa parte del racconto, un andamento da porte girevoli che si aprono e si chiudono degno di una dozzina di Feydeau). Soltanto il pio e possente fabbro Vakula, luna o non luna, continua a patire le pene d’amore. La vezzosa e civetta Oksana, la ragazza più bella di Dikan’ka , lo tiene sulla corda: gli darà il suo cuore soltanto se le porterà le scarpine della zarina. E qui la baruffa paesana si tramuta in fiaba: imbrigliato il diavolo, il fabbro lo fa volare fino a Pietroburgo, si introduce a corte e, ricevuto da una benevola zarina assieme a una delegazione di cosacchi, riceve in dono le scarpine con cui può tornare trionfatore a Dikan’ka.
Teatro delle marionette, racconto umoristico che vira alla farsa e fiaba incantata convivono in questo racconto che dà un annuncio delle Anime morte, di quello stile che Nabokov definirà “qualcosa di ridicolo e di stellare al tempo stesso”. Si beve molto nella Notte prima di Natale: la peggior maledizione che si può scagliare contro un avversario è: “Che gli possa mancare la vodka quando si sveglia al mattino”. E i miracoli sono i ravioli che si sollevano dal piatto per finire in bocca all’insaziabile commensale.
Il West dei pionieri, con una corte dei miracoli di cercatori d’oro, banditi dal cuore tenero, giocatori d’azzardo che si fanno stoici maestri di vita, ragazze da saloon e ubriaconi, popola i racconti di Francis Bret Harte (1836-1902), newyorchese di Albany trapiantato in California che prima di scrivere e dirigere giornali (tra i suoi collaboratori ci furono Ambrose Bierce e il giovane Mark Twain di cui fu mentore e che lo ripagò definendolo «bugiardo, ladro, truffatore, snob, ubriacone, scroccone, codardo») aveva fatto il cercatore d’oro, il fattorino dei telegrafi, il garzone di farmacia, il maestro e lo stampatore. Vita e carriera, come quella di Twain, da self-made man: che scrisse le prime poesie a undici anni e lasciò la scuola a tredici.
Novellette argute, le sue, con un piede nel comico e l’altro nel patetico: cercatori che si fanno cinquanta miglia a cavallo sfidando i banditi, nel cuore della notte di Natale, per portare doni al figlio ammalato di un vecchio minatore (L’arrivo di Santa Claus a Simpson’s Bar), gambler e puttane scacciati da una cittadina e derubati da un compagno di disavventure (I reietti di Poker Flatt, forse la sua cosa migliore) in un presagio di Ombre rosse senza indiani ma anche senza lieto fine. E poi ancora un’eredità e un caso di follia con una proto dark lady sullo sfondo (I mariti di Mrs. Skaggs), storie fantastiche dal passato spagnolo della California (L’occhio destro del comandante, L’avventura di Padre Vicentio), parodie (l’amato Dickens portato in volo da un fantasma sugli scenari di Ivanhoe, La fiera della vanità e simili in L’uomo tormentato).
Resta un tenue aroma, terminata la lettura, di questi racconti che ai suoi tempi furono molto popolari (nel 1871, trasferito a Boston, Harte veniva pagato diecimila dollari all’anno per scrivere per l’Atlantic Monthly). Tuttavia, la grande tradizione della short novel americana ospitata dai giornali parte da qui; da Harte prendono le mosse O. Henry, Ring Lardner e Damon Runyon. E con il suo americano farcito di dialettalismi, il padre della “local colour school” è, assieme a Twain, l’ispiratore di una scrittura antiaccademica e free form che farà la fortuna di molti, dai beat a Bukowski.
Rimane da dire di Mattioli 1885, meritoria casa editrice di Fidenza che rimette in circolo testi dei grandi maestri (Dickens, Twain del quale sta realizzando l’opera omnia) e autori spesso considerati minori delle letterature inglese e americana. Chi ama le storie di Natale potrà trovare nel suo catalogo, oltre a un Dickens “festivo” inedito in Italia (Natale nelle terre gelate, Le ultime parole dell’anno vecchio), tantissime chicche. Pesco a piene mani e segnalo, qualcosa magari vi invoglierà: Booth Tarkington (Il party di Natale di David Beasley), Louisa May Alcott, quella di Piccole donne (Un sogno di Natale e come si avverò), Rupert Hughes (Il Natale cooperativo del colonnello Crockett), John Fox jr. (Vigilia di Natale sul fiume Lonesome), Hans Christian Andersen (Biglietti di Natale), Washington Irving (Un buon vecchio Natale), Thomas Nelson Page (Natale nella vecchia Virginia), il notevolissimo Jacob A. Riis (Natale nel Lower East Side), Sarah Orne Jewell (La vigilia di Natale di Mrs. Parker, Il Natale di Betty Leicester) e William Dean Howells (Natale tutti i giorni). Quelli di Mattioli 1885 sono “light books”, libretti piccini picciò che di solito, in dicembre, tengono vicini alle casse delle librerie. Un’ottima occasione per acquisti d’impulso e piccoli regali.
O. Henry, Una storia di Natale non finita, traduzione di Franca Brea, Mattioli 1885, 2009
Un Natale dall’affittacamere. Una moglie in bolletta che vende i capelli per comprare una catenella per l’orologio da panciotto del marito, il quale a sua volta vende l’orologio per comprare degli arricciacapelli per la moglie. Un vagabondo che non riesce a farsi arrestarsi per trascorrere l’inverno al caldo. La bambola perduta della figlia di un milionario. Un Natale western con un Babbo Natale impiombato da un mandriano. E un ultimo vagabondo, che sventa una rapina ai danni di una famiglia di piantatori di New Orleans.
Sei racconti di William Sydney Porter in arte O. Henry (1862-1910), umorista al quale è intitolato il più importante premio americano per le short stories. Tra l’irriverente e il sentimentale, il tenero e il ribaldo (Damon Runyon viene da qui, un po’ anche Ring Lardner), umorismo con una punta di tristezza, o se si preferisce malinconia con molti sorrisi. Finale a sorpresa, sigillo di garanzia di O. Henry, in tutti i racconti. I miei preferiti sono Il regalo dei magi e Il poliziotto e l’inno religioso. Alcuni li aveva già tradotti Giorgio Manganelli nel cofanetto adelphiano Memorie di un cane giallo.
Selma Lagerlöf, Il libro di Natale, a cura di Maria Cristina Lombardi, Iperborea, 2021
Otto racconti scritti fra il 1900 e il 1933 dalla svedese Selma Ottilia Lovisia Lagerlöf, Nobel per la letteratura nel 1909, già comparsi in altri libri e qui riuniti in antologia. Perfetti nella loro naiveté un po’ ottocentesca, nel loro cristianesimo dolce a cavallo tra folklore (La leggenda della festa di Santa Lucia che ha echi barbarici quasi bergmaniani da Fontana della vergine), toni picareschi (La trappola per topi), incursioni nel soprannaturale (Il Capodanno degli animali), apologhi morali pervasi di spiritualità (Il teschio), piccole storie di Gesù (A Nazareth, Il pettirosso) e ricordi d’infanzia (Il libro di Natale: «Per la vigilia di Natale si ha il permesso di leggere finché si vuole. Questa è la più grande di tutte le gioie di Natale»). Leggo nel risvolto che, per Marguerite Yourcenar, Lagerlöf è «la più grande scrittrice dell’Ottocento». Mi permetto di dissentire.
Federico Maggioni / Luca Scarlini, Gli angeli arrivano da Oriente, Corraini, 2022
Federico Maggioni / Charles Dickens, Canto di Natale, Corraini, 2012
Federico Maggioni, classe 1944, è tra i maggiori e più acclamati illustratori italiani. Art director del mitico Corriere dei Piccoli e, negli anni ‘80, responsabile grafico del gruppo editoriale Bompiani-Sonzogno-Etas, collabora da allora con numerose testate, case editrici e istituzioni. Alcuni dei classici che ha arricchito con le sue tavole li ho e li tengo cari: I tre moschettieri e Vent’anni dopo di Alexandre Dumas per Donzelli, I promessi sposi per Jaca Book e Piemme, ma anche Cuore, Il cavaliere inesistente di Calvino, Il giornalino di Giamburrasca.
E soprattutto il Canto di Natale, che accompagna l’atto d’accusa dickensiano, commovente quanto implacabile, contro l’insensibilità delle classi dirigenti che affamano i poveri e sfruttano i bambini (Dickens mette in bocca a Ebenezer Scrooge, banchiere taccagno all’inverosimile che rifiuta una donazione filantropica: “Bisogna lasciar morire i poveri, così diminuisce la popolazione in eccesso”) con illustrazioni sontuosamente affilate, che trasformano la Londra vittoriana in uno zoo di animali feroci o laidi, tra maiali e faine, struzzi e coccodrilli. La ghost story natalizia che Dickens scrisse nel 1843 con i fantasmi dell’anno passato, presente e futuro (e con l’apparizione introduttoria dello spettro di un ex socio, James Marley, “morto come un chiodo di porta”), è nell’edizione illustrata da Maggioni la migliore tra quelle italiane, ma le alternative per chi non riuscisse a reperirla non mancano.
Facilmente acquistabile è invece un delizioso libretto, Gli angeli arrivano da Oriente. Un racconto dell’Annunciazione che, sempre per Corraini, Maggioni firma assieme all’ottimo Luca Scarlini (di recente ho letto, in una delle prossime puntate ne parlerò, il suo Siviero contro Hitler, dedicato al maggiore dei nostri monuments men attivi nel recuperare il patrimonio artistico italiano trafugato dai nazisti).
La narrazione, piena di incantato stupore e rispettosi ma pacatamente ironici controcanti, che due non credenti fanno di un evento centrale per il cristianesimo: l’angelo (qui grandissimo e imperioso, niente a che vedere con le aggraziate raffigurazioni della pittura classica) mandato a comunicare a Maria che sarà madre di Dio. Poetico e basato sulla tradizione (a volte attingendo anche dai Vangeli apocrifi: Giuseppe che, prima di sposare Maria, ha sei figli da un matrimonio precedente) il testo di Scarlini, che vede negli angeli una trasformazione ebraica degli uccelli adorati dalle religioni orientali. E in Maria la vittima: consenziente ma come atterrita da un compito più grande di lei, e antivedente il dolore futuro che l’attende.
Maggioni qui, più e oltre che illustratore, è coautore a pieno titolo: non soltanto per la bellezza delle immagini, ma per i balloon da fumetto che dialogano con il testo portante. Due soli esempi: l’incredulità di fronte all’annuncio che il Messia sta per nascere: “Mamma guarda”, “Non ho tempo”, “Ho visto un angelo”, “Ma figurati!”, “Vedo una strana cosa in cielo”, “Io non vedo niente”, “Tu non vedi mai niente”; e la risposta attonita di Maria di fronte all’annuncio dell’arcangelo Gabriele (“Si figuri Eccellenza”). È la stessa risposta che dà il sarto confuso alla fine della visita del cardinal Borromeo a Lucia, nei Promessi sposi. È la risposta che i poveri, mansueti e intimoriti, danno ai potenti.
E poco importa che nel racconto canonico dell’Annunciazione molte cose non tornino. Non la strage dei bambini innocenti ordinata da Erode (uno solo dei quattro Vangeli, quello di Matteo, ne fa cenno e Flavio Giuseppe non la menziona nelle sue accurate cronache dell’epoca), non la presenza dell’asino e del bue alla mangiatoia, che deriva da una profezia di Abacuc (“Ti farai conoscere in mezzo a due epoche”) che le traduzioni greche e latine della Bibbia traducono erroneamente in “Ti farai conoscere tra due animali”. Del bue e dell’asino non parlano i testi canonici, l’unica scarna menzione è nel vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo. Ciò non toglie nulla al fascino di questo libretto incantevole.
Ellis Parker Butler, Un Babbo Natale magro, traduzione di Sebastiano Pezzani, Mattioli 1885, 2010
Una manciata di gemme umoristiche di Ellis Parker Butler (1869-1937), che con oltre duemila racconti e più di trenta libri fu l’autore più prolifico e pubblicato della “pulp fiction era”. Americano dello Iowa trasferitosi a New York, Butler fu scrittore part-time: nella vita faceva il direttore di banca. Improbabili Santa Claus rubagalline che perdono il portafoglio, gatti in preda alla depressione che rinunciano alle loro nove vite, un marito che tenta di spiegare alla consorte, con esiti surreali, la struttura finanziaria di un’azienda. Vertice del suo umorismo è lo scoppiettante Un maiale è un maiale, che nel 1907 gli diede la notorietà. Alle prese con una gabbia che contiene due porcellini d’India, l’impiegato di una filiale di spedizionieri è incerto se applicare la tariffa degli animali domestici (25 cents) oppure quella dei maiali (30 cents). L’uomo che deve ritirare le due cavie, indignato per il sovrapprezzo, le lascia lì. Segue esilarante scambio di corrispondenza con i vertici aziendali, mentre le cavie si moltiplicano in progressione geometrica. Saranno più di tremila quando viene deciso che il cliente deve pagare 50 cents. Il cliente, nel frattempo, ha cambiato casa e lasciato la città. Degno dei migliori racconti di Mark Twain.
Sarban Zubrowka. Una storia di Natale, traduzione di Roberto Colajanni, Adelphi, 2020
Metti una vigilia di Natale nel caldo appiccicoso di Gedda, sulla costa dell’Arabia Saudita. Un gruppo di inglesi che risiedono lì si trucca, afferra bottiglie e strumenti e, in macchina, fa il giro degli europei e dei diplomatici per cantare carole e sbevazzare. A casa di Aleksandr Andreevic Massev, ufficiale zarista espatriato dopo l’Ottobre che è a capo della scalcagnata aviazione del regno, complice una bottiglia di Zubrowka (la vodka polacca all’erba del bisonte, avventurosamente reperita: non la bevo da tanto, la ricordo ottima), il narratore ascolta da lui un racconto perturbante: una spedizione di soccorso in Siberia, un idrovolante che rimane senza benzina, lui e l’altro pilota intrappolati nella taiga e soccorsi da sei cacciatori samoiedi, una lunga notte ghiacciata alla ricerca di un avamposto russo, le urla inumane di una “grande bestia” che sta per raggiungerli e viene risucchiata dalla palude. Niente di che, viene solo da pensare che nell’Arabia di oggi i baldi inglesi non avrebbero avuto tanto agio a circolare. Sarban, apprendo dalla scarna nota, era pseudonimo John William Wall (1910-1989), diplomatico e scrittore. E autore di un unico romanzo, Il richiamo del corno (1952), che avrebbe influenzato La svastica sul sole di Philip K Dick e Hunger games.
Georges Simenon, Un Natale di Maigret e altri racconti, traduzione di Marina Di Leo, Adelphi, 2015
Me la ricordavo, quella dispensa sul balcone, in un vecchio Maigret televisivo con Gino Cervi. Era l’unica cosa che ricordavo, il primo indizio di colpevolezza, così mi sono andato a ritrovare questo racconto tutto sfumature. Parigi in un Natale di nevischio da anni ‘50, case senza frigorifero. La dispensa è quella di una vicina di casa del commissario, la trentenne Loraine Martin, una bionda diffidente con le labbra strette per cui tutti provano antipatia, anche se “non si può dire niente sul suo conto”. «Sul davanzale della finestra che dava in cortile c’era una piccola dispensa. Maigret ne ispezionò il contenuto: carne fredda, burro, uova e verdura. Nella credenza della cucina trovò due pani freschi ancora interi». Eppure Loraine è scesa a fare la spesa, affidando a una vicina la nipotina Colette. Dove è andata, in realtà?
Un passo indietro. Natale placido in casa Maigret. Il commissario e la moglie si scambiano i doni: una pipa nuova per lui, una caffettiera e dei fazzolettini per lei, non è tempo di consumismo. Poi bussano alla porta. Sono due vicine, una zitella di buon cuore si è trascinata appresso una giovane che l’ha seguita a malincuore. A casa della giovane, nel corso della notte è accaduto un fatto insolito. La nipote Colette di sette anni, immobilizzata a letto da una gamba ingessata, si è ritrovata nella sua camera un Babbo Natale che le ha regalato una bambola facendole cenno di tacere e si è messo a sollevare due assi dell’impiantito.
Maigret, incredulo sulle prime, è invitato – Loraine acconsente controvoglia – a interrogare Colette. Trova in lei una piccola adulta giudiziosa e scruta un ambiente che gli dà una sensazione di stonato. Una casa da scapoli anche se i Martin sono una famiglia. Il marito, commesso viaggiatore, è in Dordogna a vendere orologi. E Loraine, inappuntabile ma anaffettiva, si prende cura della giovane nipote che hanno preso in casa quando la madre è morta in un incidente e il padre, cognato di Loraine, ha deragliato. Prende la mosse da qui, dalla convinzione che il racconto della bambina sia veritiero e dalla sensazione che in quella casa i conti non tornino, un’indagine in pantofole che Maigret conduce senza muoversi di casa, mentre in cucina la cipolla soffrigge e il pollo si rosola. Sguinzagliati Lucas, Torrence e Janvier, interrogati tassisti e venditori di valigie, setacciati gli archivi, controllato l’elenco degli scarcerati negli ultimi mesi, verranno a galla scheletri nell’armadio che qui non è opportuno rivelare.
Il volumetto adelphiano ospita altri due racconti (Nessuno ammazza un poveraccio e Il cliente più ostinato del mondo) ma il più celebre è questo, che ha avuto quattro versioni televisive. Simenon lo scrisse nel 1950 a Carmel-by-the-Sea, in California. Clint Eastwood è stato sindaco di Carmel dal 1986 al 1988. Chissà se avrebbe avuto voglia di dirigere un Maigret.
Adalbert Stifter, Cristallo di rocca, traduzione di Gabriella Bemporad, Adelphi, 1984
«La nostra Chiesa celebra diverse feste che toccano il cuore (…) Una delle feste più belle la Chiesa la celebra quasi nel mezzo dell’inverno, quando le notti sono pressoché le più lunghe e le giornate le più brevi dell’anno, quando il sole sta più obliquo sui nostri campi e la neve copre tutta la campagna: la festa di Natale».
Il paesino di Gschaid (esiste ancora, è una frazione di Birkfeld con meno di mille abitanti, nella Stiria) sorge in una vallata isolata ai piedi di una montagna e di un ghiacciaio. Comunità chiusa ma di buon cuore, quella di Gschaid: che coltiva le terre, alleva il bestiame e produce da sé quasi tutto quel che consuma, al punto che persino i contatti con il paese vicino e più aperto al mondo, Millsdorf, sono sporadici.
Nella piazza principale del paese ha casa e bottega un calzolaio. È stato uno scapestrato e un cacciatore di frodo di gioventù, poi è diventato un artigiano rinomato anche fuori dal paese e dalla vallata, ha cominciato ad arricchire e ad acquistare terre. In muta competizione con il suocero, un tintore di Millsdorf che gli ha dato in moglie la figlia, senza tuttavia dotarla, per metterlo alla prova.
Dal matrimonio sono nati due figli, Corrado e Susanna detta Sanna: sono gli unici che vanno a Millsdorf, a trovare la nonna, percorrendo un sentiero che rasenta la montagna e scavalla da una vallata all’altra. Sono in visita anche alla vigilia di Natale, approfittando del bel tempo. Al ritorno li sorprendono una nevicata fitta e una nebbia che fanno perdere loro la strada. I bambini (il giudizioso Corrado che copre, rifocilla e conforta l’obbediente Sanna) hanno lasciato il sentiero e, senza accorgersene, hanno raggiunto il ghiacciaio.
Passeranno la notte in una cavità tra due massi, vegliando per non rischiare l’assideramento, alla mattina disorientati vedranno una bandiera rossa e sentiranno il suono di un corno: sono gli abitanti dei due villaggi, non più estranei, che stanno battendo la montagna per cercarli. Rifocillati e ricondotti a casa, i bambini riceveranno finalmente, prima di cedere al sonno, i doni di Natale.
Un racconto perfetto e classico, dall’avvio lento e sinuoso che si inerpica e prende quota quando i bimbi si smarriscono. Raramente la montagna e la piccola comunità autosufficiente che la abita sono state raccontate con tanta intensità, raramente la fascinazione della neve e del ghiaccio, dove l’incanto cede alla paura, hanno trovato cantori così ispirati. Sobrio e parco nell’aggettivazione, quasi monocromatico nella tavolozza con cui tinteggia il racconto (il bianco dell’inverno e della purezza, il rosso dell’amore e della salvezza), Cristallo di rocca ha un di più di fascino che gli deriva dalla sua “religione della natura” e da un persistente aroma fiabesco (i bambini perduti nel bosco). Adalbert Stifter (1805-1868) pubblicò Cristallo di rocca nel 1845 come racconto per bambini e, dopo averlo rimaneggiato e polito, lo incluse nella raccolta Pietre colorate.
Tre bambini e un’adulta che li accompagna alla cattedrale di St. Paul, a Londra. È il primo anno dopo la guerra, non cadono più le bombe, si ricomincia a vivere, c’è animazione nelle strade, luce dopo tanto oscuramento. Alla cattedrale è in corso una funzione natalizia officiata dal vescovo, il coro di voci bianche canta le carole – una sugli animali che vegliano il divino infante nella mangiatoia e gli offrono i loro poveri doni – e i tre bambini commentano irriverenti, a voce alta. Quando è il momento di regalare i loro vecchi giocattoli ai bambini poveri, i tre, che hanno in gran conto la virtù ma trovano difficile praticarla, recalcitrano e infine rifiutano. Usciti all’aria aperta, tra le macerie dei bombardamenti, uno di loro fa una domanda alla narratrice: perché non c’era neppure un animale selvatico a rendere omaggio al Bambino? E qui l’autrice vola, in un racconto che altrimenti resterebbe una delle tante graziose nugae d’occasione. Alla mangiatoia si presenta infatti la volpe, osteggiata dagli altri mansueti animali, per regalare all’infante la sua astuzia, di cui avrà bisogno quando sarà, come lei, solo in un mondo ostile. Ecco, quelle dieci venti pagine che fanno parlare la volpe sono un grande, amaro omaggio alla solitudine selvatica, alla diversità e al coraggio indomito dell’individualità. Traduzione con qualche scivolata: “un decoroso schiarirsi di gole, quasi apologetico” sarebbe stato meglio reso con “scusandosi” o “come chiedendo scusa”, più aderente all’inglese apologetically, restituito con letteralità erronea. Pamela Lyndon Travers è l’autrice di Mary Poppins.