Secondo l’Istat un lettore ‘forte’ legge tra i 10 e i 12 libri l’anno. Cosa dire allora dell’autore di questa rubrica? Ogni mese – qui il debutto – vi condurrà in un suo personalissimo percorso fitto di titoli tra letteratura, saggistica e varia con l’unico, indiscutibile criterio del gusto di scoprire
Che cosa ho letto negli ultimi trenta giorni? Leggo per piacere e per lavoro. A volte fino all’ultima pagina, fino all’ultima goccia. E a volte in fretta, attraversando il testo ed estraendone quel che mi serve sapere o predare. Spesso annusando il libro, facendo assaggi e carotaggi e promettendomi di tornarci su con più calma. Acquisto più di quanto non riesca a leggere ma tutto quello che entra in casa, in qualche modo, viene o verrà “letto”: soppesato, classificato, messo in relazione con altre letture. Spesso, non sempre, scrivo dei libri che leggo: dall’appunto rapido alla scheda alla recensione all’articolo. Qui vorrei provare a dare conto delle mie letture mensili. Si comincia con la lista della spesa (in neretto i libri anche letti), seguono gli assaggi.
LA SPESA (acquistati e/o ricevuti)
Kate Atkinson, Il cerchio magico, Marsilio
Alfonso Berardinelli, Un secolo dentro l’altro, il Saggiatore
Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi
Andrea Canobbio, La traversata notturna, La Nave di Teseo
Lucio Caracciolo, La pace è finita, Feltrinelli
Iulian Ciocan, Prima che Breznev morisse, Bottega Errante
Tove Ditlevsen, Infanzia, Fazi
E giustizia per tutti, Il Post/Iperborea
Annie Ernaux, Passione semplice, Rizzoli
Annie Ernaux, Il ragazzo, L’Orma
Gian Arturo Ferrari, Storia confidenziale dell’editoria italiana, Marsilio
Sacha Guitry, Memorie di un baro, Adelphi
Nick Hornby, Dickens e Prince. Uno speciale tipo di genio, Guanda
Paola Italia, Gaddabolario, Carocci
Cesare Lombroso, L’amore nei pazzi e altri scritti, Einaudi
Carlo Lucarelli, Bell’abissina, Mondadori
Marzio G. Mian, Guerra bianca, Neri Pozza
Sebastjan Pregelj, Il giorno in cui finì l’estate, Bottega Errante
Chiara Saraceno/ David Benassi/ Enrica Morlicchio, La povertà in Italia, Il Mulino
Benjamin Stevenson, Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno, Feltrinelli
David Thomson, La formula perfetta. Una storia di Hollywood, Adelphi
Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi Stile Libero
Paolo Valera, Milano sconosciuta, Libreria Milanese
Federico Varese, La Russia in quattro criminali, Einaudi
LE LETTURE
Annie Ernaux, Il ragazzo, traduzione di Lorenzo Flabbi, L’Orma
Annie Ernaux, Passione semplice, traduzione di Idolina Landolfi, Rizzoli
Due libri dell’amata Ernaux. Un testo del 1991 (Passione semplice) ripubblicato da Rizzoli. E un libro confezionato subito dopo il freschissimo Nobel, con un breve racconto e la trascrizione di tre discorsi. Un libro necessario e bello (ancora Passione semplice) in cui Ernaux, più che mai antropologa di se stessa, racconta la relazione clandestina con un uomo sposato e straniero. I soprassalti, la battaglia persa con la razionalità, le lunghe attese e i brevi appagamenti, i tentativi di allontarsi e le scaramanzie per propiziare gli incontri. L’ossessione della scrittura, che qui viene dopo la storia, ed è tentativo di definire (e far sfebbrare) la passione del corpo, finita la passione e imboccata la strada dello smemorare.
Nel recente Il ragazzo Ernaux dice, quasi a spiegare l’antica passione: «Se non le scrivo, le cose non sono arrivate fino al loro termine, sono state soltanto vissute». Nell’opera ultima, però, la scrittura non segue ma precede la vita: «Spesso ho fatto l’amore per obbligarmi a scrivere. Volevo trovare nella fatica, nella derelizione che ne segue, delle ragioni per non aspettare più niente dalla vita. Speravo che la fine dell’attesa più violenta che ci sia, l’attesa di godere, mi facesse provare la certezza che non esiste piacere superiore a quello della scrittura di un libro».
A dirla in termini privi di grazia: comandare/ scrivere meglio che fottere? La relazione con un ragazzo di trent’anni più giovane come esercizio di letteratura (e, a quanto mi pare di trattenere dopo la lettura, come esercizio di potere) e come blando piacere dello scandalo, del ribaltamento dei ruoli. L’esplorazione di se stesse, che in Ernaux ha prodotto pagine più che notevoli scritte ‘a ciglio asciutto’, in un corpo a corpo impavido con la vergogna e con ciò che viene difficile dire («Quando l’indicibile viene alla luce, è politico» ha affermato nel discorso del Nobel), qui pare piegata a un esercizio di egotismo sul quale aleggia il sospetto dell’aridità.
Gian Arturo Ferrari, Storia confidenziale dell’editoria italiana, Marsilio
In copertina c’è scritto Marsilio Romanzi, e converrà crederci. Un romanzo dunque, non una storia accademica. Anche se Gian Arturo Ferrari è stato docente universitario, prima di diventare uno dei massimi artefici dell’editoria italiana (Boringhieri, Rizzoli, dai primi ‘90 al 2018 con qualche interruzione Mondadori). Una svelta galleria storica (Sonzogno e Treves agli albori, i carissimi nemici Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli che si davano vicendevolmente del gangster e del bandito) e, per gran parte del libro, una vivace soggettiva fatta per metà di passione e per metà di disincanto. Perché quello dell’editore e dell’ ‘editoriale’, posto che esistano lavori adatti ai puri spiriti, è mestiere quanto mai impuro: tra Dio e Mammona, per dirla con l’autore. Tra la qualità e l’imperativo del successo. Dice Ferrari che i libri bisogna non soltanto saperli leggere, ma saperli fare: precetto valido per l’empireo einaudiano e adelphiano quanto per i besteseller in salsa egizia di Christian Jacque. Molti gli incontri d’eccezione. L’iracondo Livio Garzanti e il mite Paolo Boringhieri, il geniale e deragliato Alberto Mondadori del Saggiatore (la Nave di Teseo ha appena mandato in libreria la sua biografia credo definitiva, Verità di famiglia di Sebastiano Mondadori) e il mercuriale Mario Spagnol che, prima di accasarsi alla Longanesi, farà la fortuna di molte case editrici. E poi il divo Giulio (Einaudi) e il megalomane e appassionato Leonardo Mondadori. Non c’è irrisione nelle rievocazioni di Ferrari, ma i giudizi sono netti, senza infingimenti (severe le pagine sul disastro dell’Enciclopedia Einaudi). E si respira l’odore della polvere di sparo, il profumo della battaglia per piccole o grandi strategie, che si svolgano alla Buchmesse o al Ninfeo di Villa Giulia (divertita la narrazione di come Ferrari riesca a sottrarre lo Strega alle Nozze di Cadmo e Armonia del vincitore annunciato Roberto Calasso, con suo grande scorno, facendo confluire su Giuseppe Pontiggia i voti della snobbatissima Newton Compton). La parte più bella del libro, impalpabile quanto affascinante, sono però i giudizi sui libri che funzionano e sui testi sui quali non è opportuno scommettere: giudizi non del critico con la cetra in mano ma dell’editore con la mani in pasta. A me, nella loro sicura asciuttezza, hanno fatto venire in mente certe schede del Manganelli consulente editoriale che considerava Nadine Gordimer o Doris Lessing noiose ma da pubblicare per un pubblico di professoresse. Del romanzo, infine, la Storia confidenziale di Ferrari ha la qualità di specchio in cui chi con i libri ha avuto da fare, da lettore oppure da più o meno addetto ai lavori, si riconosce. Così, gli si perdona anche qualche sbuffo di ego e certa esibita antipatia da manager rude che si vanta di imporre briglie e sella ai sottoposti.
Sacha Guitry, Memorie di un baro, traduzione di Davide Tortorella, postfazione di Edgardo Franzosini, Adelphi
Ci sono autori che assomigliano ai formaggi di certe nostre vallate. Saporiti, non di rado strepitosi, ma da consumare sul posto: difficili da esportare ed esportati di rado. Così è per il proteiforme Sacha Guitry (1885-1957) che ricorda il poco più giovane e inglese Noël Coward (1899-1973). Come lui commediografo (124 testi teatrali, quasi tutti anche diretti e interpretati), canzonettista, regista di cinema (37 film, François Truffaut lo adorava) e disegnatore, collezionista, giocatore e accademico di Francia. In più scrittore irresistibile di quest’unico romanzo che è del 1935 e che diventerà film (un altro scrittore-regista, grande e pressoché ignorato dalla nostra Italia cinefila che si è bevuta ogni residuato hollywoodiano d’antan, è il marsigliese Marcel Pagnol: in Italia lo ha riproposto Neri Pozza e La gloria di mio padre è un piccolo capolavoro).
Un io narrante candidamente amorale e cordialmente cinico racconta la sua carriera: orfano dodicenne tutto sommato felice, groom d’albergo, croupier (feroce ed esilarante la descrizione di Montecarlo), infine baro che accumula una fortuna e giocatore corretto e ravveduto che, proprio a causa della correttezza, torna alla casella di partenza ritrovandosi in miseria. Un elogio ironico ed elegante, a suo modo stoico, del caso e della dissipazione: la vera ricchezza non è ammassare denaro ma spenderlo e farlo circolare. Ne è convinto l’io narrante, pare che ne fosse convinto anche l’iperattivo autore.
Appena un assaggio dello stile sincopato e noir di Guitry, che dopo aver dichiarato lo stato di famiglia del protagonista («A tavola eravamo in dodici», tra i quali uno zio sordomuto), lo lascia solo al mondo grazie un piatto di funghi velenosi.
«Solo, perché avevo rubato otto soldi dalla cassa per comprarmi delle biglie – e mio padre, al colmo dello sdegno, aveva fatto la voce grossa: «Hai rubato, e allora per te niente funghi!». I vegetali funesti li aveva raccolti il sordomuto – e quella sera in casa c’erano undici cadaveri.
Chi non ha mai visto undici cadaveri tutti insieme non può neppure immaginare la quantità di cadaveri che sono.
Ce n’erano dappertutto.
Dovrei parlare del mio dolore?
Diciamo la verità, piuttosto. Avevo solo dodici anni, e ammetterete che era una disgrazia eccessiva per la mia età. Sì, ero veramente sopraffatto da quella catastrofe e, non avendo abbastanza esperienza per comprenderne appieno l’orrore, me ne sentivo, in un certo senso, indegno.
Uno può piangere una madre o un padre, o un fratello: ma come fai a piangere undici persone? Non sai più per chi affliggerti. Non mi azzardo a parlare di imbarazzo della scelta – eppure in un certo senso si trattava proprio di quello. Sollecitato a destra e a manca, il mio dolore aveva troppe fonti di distrazione».
P. S. Il traduttore Davide Tortorella è figlio del Mago Zurlì.
Cesare Lombroso, L’amore nei pazzi e altri scritti, Einaudi
Leggete qui: «Un maestro di 52 anni, figlio di bevone, con nonna pazza, zio epilettico, fratello omicida, eccellente contabile, che aveva tentato un giorno di annegare la moglie, e sei volte di suicidarsi senza causa, venne arrestato per aver cercato di masturbare dei compagni d’ufficio».
Una pillola di pazzia firmata da Cesare Lombroso (1835-1909), padre della criminologia positivistica, misuratore di crani e teorico dell’uomo delinquente. In questa raccolta poderosa che sfoglio, l’ho acquistata per un libro che dovrei scrivere, e che quanto prima leggerò (Einaudi la pubblica nei sontuosi Millenni, pagine LXVI-726, a cura dello storico Alberto Cavaglion) la preferenza è data agli scritti minori, ai diari, alle divulgazioni giornalistiche. Il Lombroso criminologo e alienista è, da tempo, screditato. E a leggere le sue generalizzazioni (le prostitute hanno l’alluce prensile, la passione del pedalare trascina alla truffa, tutti quelli che hanno malattie di cuore sono cattivi quasi sempre) si capisce perché. A me viene però il sospetto che questi suoi azzardi (ce n’è uno strepitoso su un contadino ossessionato dai grembiuli bianchi) siano in realtà fiabe nere che non hanno niente da invidiare alle crudeltà dei Grimm.
Marzio G. Mian, Guerra bianca. Sul fronte artico del conflitto mondiale, Neri Pozza
Il cielo è viola, la tundra verdognola, la neve cade nera o arancione, la nebbia a volte si colora di blu cobalto. Siamo a Noril’sk, Siberia, la città più inquinata dell’emisfero settentrionale dove i bambini hanno la scuola elementare, fatta costruire dall’oligarca Roman Abramovic, davanti alla centrale nucleare. Storie dell’Artico, l’ultimo Far West in cui insediarsi e dove mettere a segno le nuove rapine neocolonialiste ma anche l’apocalisse prossima ventura, la guerra mondiale futura che, secondo Marzio Mian, è quasi una certezza. In questo bancomat della Russia a cui la Cina guarda con crescente cupidigia, i ghiacci che si sciolgono tracciano nuove rotte commerciali e fanno emergere risorse sterminate, un Eldorado di petrolio, gas, uranio e terre rare. Mettendo a rischio il nostro fragile equilibrio ambientale: mari che crescono, aree costiere spazzate via (esemplari le pagine sull’effetto devastante che l’innalzamento nell’Atlantico ha sul Senegal). Soprattutto, questo patrimonio, presidiato in maniera arcigna dalla Russia che ha archiviato l’antica collaborazione artica (“Nessuno da queste parti può farcela da solo”), è la scintilla che può fare scoppiare il prossimo conflitto. Tra popolazioni autoctone spazzate via dal progresso (l’epidemia di suicidi fra i giovani inuit della Groenlandia), esploratori idealisti costretti ad arrendersi, amministratori locali spesso eroici alle prese con l’avidità delle multinazionali, arsenali atomici che si fronteggiano (la Russia li ha posizionati a un tiro di schioppo dai paesi scandinavi, divenuti cuore strategico della Nato, per poter colpire l’America), gli Stati Uniti arrancano e l’Europa è più che mai irrilevante.
Un grande reportage giornalistico su un’area cruciale di cui sappiamo poco. Marzio G. Mian, autore di libri affilati (Maledetta Serajevo con Francesco Battistini, Tevere controcorrente), ha fondato con altri giornalisti non solo italiani la società non profit The Arctic Times Project, che documenta le conseguenze del cambiamento climatico nella regione artica.
Federico Varese, La Russia in quattro criminali, Einaudi, 2022
«Comprendere il mondo, oggi, significa comprendere la Russia. Un modo inusuale, ma efficace, per farlo è attraverso i suoi criminali. Perché il regime russo è il culmine di una transizione al mercato e alla democrazia profondamente viziata dal furto generalizzato, dalla repressione del dissenso e dall’alleanza tra criminalità e politica». Niente di più, niente di meno. Quattro ritratti per quattro periodi. Gli anni della perestrojka in cui le maglie della repressione si allentano e i gruppi criminali paiono utili intermediari fra l’apparato statale e il mercato (il boss mafioso Vjaceslav Ivan’kov, uno tra i più in vista dei ladri-in-legge, fatto fuori nel 2009 dalla mafia dell’Abkhazia). Il grande ladrocinio dell’era Eltsin, con il presidente alcolista – che l’Occidente abbacinato scambia per un democratizzatore – e i suoi sodali e complici che rapinano le casse dello stato e privatizzano selvaggiamente, creando un nugolo di arricchiti voraci e una legioni di immiseriti (l’oligarca Boris Berezovskij, il primo a nuotare nei miliardi e tra i primi a uscire di scena, ufficialmente suicida, anche lui nel 2009). Il ritorno al perfetto ordine autocratico di Putin, con la criminalità che deve piegarsi o subire, come del resto il dissenso, torture, stupri e soprusi in carcere (le agghiaccianti testimonianze anche visive raccolte e fatte uscire dalla Russia da Sergej Savel’ev, un Edward Snowden all’incontrario). E infine l’oggi degli hacker, i criminali informatici che, come Nikita Kuzman inventore del virus Gozi, hanno carta bianca per le loro frodi ed estorsioni su scala planetaria, purché non prendano di mira cittadini russi e siano pronti a collaborare con il potere per effettuare attacchi informatici contro i “nemici”. Uno svelto, appassionato e implacabile j’accuse che tratteggia la Russia come stato canaglia. Federico Varese, esperto di mafia russa, è professore di criminologia e direttore del dipartimento di sociologia dell’università di Oxford.
In apertura: Foto di Asal Lotfi su Unsplash