Il giovane violinista, diretto da Chailly alla guida della Filarmonica della Scala, interpreta Sibelius con autorevolezza
Accoppiata Sibelius-Brahms per il concerto della Filarmonica della Scala di lunedì 29 aprile. Oltre alla Prima sinfonia dell’autorevole tedesco era infatti prevista l’esecuzione di due capisaldi del repertorio del più noto compositore finlandese: Finlandia e il Concerto per violino e orchestra.
Per l’occasione, il “viaggio” verso il paese nordico era guidato dal direttore Riccardo Chailly accompagnato da un giovane debuttante sul palco scaligero: il violinista Emmanuel Tjeknavorian che ha eseguito il concerto con cui, nel 2015, si è fatto conoscere dal pubblico internazionale.
Ma andiamo con ordine: la serata si è aperta con Finlandia, il breve poema sinfonico dedicato da Sibelius alla resistenza del proprio paese all’Impero russo dello zar Nicola II. Ciò che colpisce oggi ascoltando questo brano è che, seppur debba ritenersi la più celebre tra tutte le composizioni dell’autore, possiede un valore storico sensibilmente maggiore di quello musicale, soprattutto se paragonato con le grandi opere successive. La semplice scrittura accordale affidata a omogenei gruppi strumentali e la forma breve rendono ardua un’interpretazione che riesca a far brillare il brano, anche se affidato a una bacchetta esperta come quella di Chailly. In ogni caso, l’esecuzione del maestro milanese, per quanto precisa e attenta, appare ancor più fredda del gelido territorio nordico evocato dalle note. L’orchestra è coesa, il gesto sicuro e deciso ma l’esecuzione, corretta, non è entusiasmante.
Ben diverso il tono del successivo Concerto per violino. L’iniziale atmosfera rarefatta degli archi in pp dell’Allegro moderato ricorda l’Adagio della Quinta di Mahler che sempre Chailly ha diretto a febbraio con la stessa orchestra. E, così come quello, piace: il direttore interpretando questo movimento riesce a essere delicato, a lasciare il giusto spazio a Tjeknavorian che qui ha spesso un ruolo preponderante sull’orchestra, non di rado subordinata al ruolo di discreto sfondo sonoro alle frasi del solista.
Dei tre, il secondo movimento (Adagio di molto) è quello più debole: Tjeknavorian è molto espressivo e coinvolto, eppure manca quella simbiosi con l’orchestra che pone le fondamenta su cui è possibile costruire l’intero edificio sonoro. Nella delicata orchestrazione prevista dal compositore la compagine scaligera fatica a trovare il giusto equilibrio tra le parti e, a volte, l’impasto timbrico risulta sbilanciato. Tocca ai fiati dell’orchestra il ruolo più difficile.
Ma il ritmo incalzante dei contrabbassi che inaugura il terzo, seguito dalla cantabilissima melodia del solista, fa da presagio a un finale memorabile. In quest’ultimo Allegro, una pagina tra le più felici di Sibelius, si mostra il lato lirico del musicista, quello che un paio di anni prima aveva chiuso la Sinfonia n. 2 con altrettanto impeto. Qui, ancora una volta, Tjeknavorian si dimostra all’altezza della prova superando le migliori aspettative. La rigida scansione ritmica del pezzo accentua il rischio di scivoloni e rende percettibile ogni piccola imprecisione ma, a dispetto del “terreno instabile”, l’esecuzione del “nostro” è vivace e decisa.
Il solista aiuta l’orchestra, il pubblico è in visibilio per il giovane interprete apprezzato senza riserve. Dopo calorosissimi applausi Tjeknavorian, che è austriaco di origini armene, omaggia la terra lontana con l’esecuzione di un bis assorto e malinconico del compositore armeno Vardapet Komitas, Krunk.
La prova direttoriale più impegnativa, la Sinfonia n. 1 op.68 di Brahms, è invece tenuta per ultima. La statura di Chailly, già autore di due stimatissime registrazioni integrali delle quattro sinfonie brahmsiane, rende difficile essere imparziali. Alla fine dell’esecuzione il pubblico non ha dubbi: il successo è clamoroso, gli applausi fragorosi. Rispetto alle sue prove per la Decca però sembra che il direttore, con l’insigne orchestra italiana, deluda in parte le aspettative dei più competenti.
L’ultimo, maestoso, movimento è quello che riesce meglio di tutti, tanto nell’introduzione lenta e drammatica quanto nel memorabile tema popolaresco e leggero dell’Allegro, cantato sommessamente tra i denti da alcuni tra i più temerari spettatori della Scala.