Bradley Cooper interpreta e dirige (in senso filmico e anche orchestrale) un ritratto del grande compositore e direttore che a soli 25 anni venne scaraventato sul podio della New York Philharmonic per sostituire Bruno Walter. E da allora non ha più smesso di incantare il mondo, guidando Maria Callas alla Scala in una celebre “Medea”, svelando Gustav Mahler e le sue sinfonie, rivoluzionando l’idea stessa del musical con “West Side Story”. Nel film ci sono le tappe della sua carriera, la voce, anche il Bernstein privato. E il tributo alla musica come valore universale, umano, culturale, politico
Dal 20 dicembre Netflix mette in palinsesto Maestro, film di e con Bradley Cooper, presentato all’ultima Mostra di Venezia, circolato nelle sale con visibilità da cineteca, corredato da commenti aperti in una forbice che va dal “capolavoro” (molti, moltissimi) al tiepido tre stelline e mezzo (rifugio degli incerti e con poche idee). Diversamente da molta Rai di oggi e Mediaset di sempre, non risultano spettatori che, “capitati per caso sui programmi” di Netflix, “si siano subito accecati come Edipo” (lo rubo al Woody Allen di Pura Anarchia, 172 paginette deliziose per La nave di Teseo). Ma si può andare oltre al credito sulla fiducia: Maestro è un film di musica autentico e toccante. Non un film musicale, ma sulla musica come ragione di vita. Impossibile da confondere con i falsi che costellano la storia del genere.
Il “maestro” di cui racconta il film ideato, scritto, girato e interpretato da Bradley Cooper, ma sorretto da una produzione in cui compaiono anche Martin Scorsese e Steven Spielberg, è Leonard Bernstein: pianista, direttore d’orchestra (il più grande del dopo-Karajan, inteso come dato cronologico, non di valore), musicista totale, divulgatore prodigioso, compositore senza confini. Bernstein, Lenny per gli amici, è il giovane di 25 anni che una sera del 1943 viene scaraventato sul podio della New York Philharmonic per sostituire Bruno Walter, ammalato, senza prove o quasi, lasciando tutti di stucco. È il 35enne in cui crede la Scala nel 1953 chiamandolo a dirigere un’opera che quasi nessuno conosce, Medea di Cherubini, e la dea che tutti già adorano, Maria Callas. É il musicista che si riconosce in Gustav Mahler, ebreo come lui, che lo svela, lo innalza, ne diventa interprete autentico e ancor oggi inevitabile. È l’americano che fa eseguire ai Wiener Philharmoniker tutte le sinfonie di Mahler per la prima volta (Vienna doveva aspettare uno yankee in smoking e stivali per onorare il misconosciuto genio di casa, costretto ad andare ad Amsterdam per ascoltare dal vivo le sue musiche).
É il compositore baciato dal dono della Melodia che in West Side Story apre le ali come nessuno dopo Gershwin (vero nome da emigrato, Jakob Gershowitz, religione?). É il cerimoniere generoso dei Young People Concerts in cui si fa conoscere a New York un piccolo esercito di talenti, fra cui Seiji Ozawa e Claudio Abbado. È il divulgatore che in trasmissioni tv che ancora lasciano a bocca aperta (Omnibus), spiega la musica ai colti e l’apre a tutti con sapienza e leggerezza. É il compositore che in anni sabbatici scrive strane Sinfonie “nominate” (Jeremiah, The Age of Anxiety, Kaddish), una scandalosa Messa per l’inaugurazione del John Fitzgerald Kennedy Center di Washington, dopo aver confezionato colonne sonore per un filmetto di Elia Kazan (Fronte del porto), per musical diventati leggenda (Wonderful Town) e poi film di culto (On The Town, con Gene Kelly e Frank Sinatra), per un balletto che catapultava Shakespeare a New York (West Side Story, anche al cinema con Nathalie Wood), un’operetta sul Candide di Voltaire, musica da camera per orchestra, per coro e orchestra, per il teatro (Trouble in Tahiti confluita in A Quiet Place).
Maestro inizia e finisce (a colori) con una pensosa intervista televisiva di Lenny al pianoforte (Bradley Cooper suona davvero, senza che la cinepresa spazzoli l’aria o faccia zoom sulle mani di un altro). La storia prende slancio (in bianco e nero) dalla scena (perfetta) che replica la sostituzione in extremis del maestro ammalato (Bruno Walter): topos di ogni avvio di carriera avvolto nel mito. Ma non figuratevi una galleria di pedanterie classiche. Maestro è una storia di vita, di amore e di amori (anche amorazzi), di ordinaria e disordinata follia. La materia viene in gran parte dall’epistolario raccolto da Nigel Simeone nel 2013, del quale Archinto ha estratto nel 2019 le Lettere ai familiari che raccontano da vicino i fatti e i
personaggi di Maestro (1950-1978): la vicenda privata e sorprendentemente sincera tra Bernstein e la moglie, Felicia Montealegre, costaricana, quattro anni più giovane, musicista e attrice che rinuncia alla
carriera, donna di bellezza e “di pensiero” cui l’uomo Bernstein, gay prima durante e dopo il matrimonio (con tre figli), non sa rinunciare. Solo la morte di Felicia, a 52 anni, per tumore, mette fine a un rapporto intimo e forsennato, profondo e crudele fra una donna che sa bene “chi ho sposato”, e un uomo che senza musica non vive e fuori dalla musica è capace di bruciare la vita in tutti i modi possibili.
Miracolosamente per un “attore musicale”, Bradley Cooper, che confessa di aver sognato fin da bambino di salire su un podio, dirige con gesto tecnicamente preciso e bernsteinianamente “esatto”, frutto di talento proprio e di severo esercizio per il quale bisogna ringraziare il training con Yannick Nézet-Séguin, direttore giovane ed eccellente della Philadelphia Orchestra, al quale si deve la qualità delle musiche (un’antologia Bernstein, più che una colonna sonora) confluite in un Maestro che è disco materiale ed elettronico (Deutsche Grammophon) staccato dal film. La lunga inquadratura frontale in cui Cooper-Bernstein dirige quasi in transe, occhi chiusi, stravolto, sembra il passo più eccessivo del film. Ma quando
sui titoli di coda appare la sequenza vera, con Bernstein “in action”, la somiglianza fisica e la plausibilità musicale sono senza peccato. Bradley Cooper s’immerge nel corpo di Bernstein con credibilità crescente lungo gli anni: il Lenny agée coi capelli bianchi è un vero replicante.
La musica esce naturale di scena in scena. Nella scelta dei brani si apprezza soprattutto il non insistere sui best seller, West Side Story su tutti. Ma infine, come ogni film che corre e non passeggia come un documentario, Maestro ha un plot coinvolgente, una sceneggiatura serrata, una velocità che non teme le pause nel raccontare due vite esaltate quanto afflitte dall’egoismo dell’arte. Carey Mulligan condivide alla pari con Bradley Cooper il primo posto nel cast: ha la grazia e la forza per rendere di Felicia Montealegre tutte intonazioni di una donna toccata da molte fortune e grandi dolori. La sua è una prova d’attrice antiretorica cui la lingua e gli accenti americani garantiscono i colori giusti (consiglio la versione originale con sottotitoli: è un po’ come ascoltare Mozart sul fortepiano Walter). Non è strano che le reazioni più tiepide vengano dai cinefili. La platea di chi sa molto o un po’ di musica, invece non ha dubbi: l’Opera, che di emozioni se ne intende, ha trovato in Maestro la porta aperta, ha dato un’occhiata e si è seduta volentieri in salotto.
PS. Per le serate a casa di Leonard Bernstein e Felicia Montealegre è stato coniato lo slogan “Radical chic”. Il che, pensando che lui era un genio, lei bella e intelligente, tutti e due democratici, amici dei Kennedy e di Martin Luther King, simpatizzanti anche di qualche pantera nera, filantropi e mecenati, a qualche cretino si può davvero rispondere come il Marchese del Grillo: “sì, io so’ radical chic e voi nun siete un c…”.
Maestro di e con Bradley Cooper e con Carey Mulligan, Matt Bomer, Vincenzo Amato, Maya Hawke, Sam Nivola, Booch O’Connell, Jace Wade, Atika Greene