Una mostra doppia Napoli-Milano alla Galleria Lia Rumma per raccontare gli anni Sessanta del fotografo da sempre considerato più artista di tutti gli altri
Cosa succederebbe se l’Archivio fotografico Ugo Mulas decidesse di intraprendere una collaborazione con una galleria d’arte come la Lia Rumma? Ne nascerebbero due mostre, a 800 km di distanza l’una dall’altra, dedicate all’artista di Pozzolengo: la prima a Napoli, l’altra qui, a Milano.
E in mezzo all’immensa produzione del fotografo, che, nato nel 1928, cominciò a scattare nel 1951, e smise nel 1973 a causa di una morte decisamente prematura, sarebbe difficile decidere su quale parte concentrarsi. Tina Kukielski, curatrice della doppia mostra che si chiuderà il 14 febbraio, ha fatto cadere la scelta sugli ultimi anni della sua produzione, sul Mulas della fine degli anni ’60: quello che senza abbandonare del tutto l’istinto iniziò a farsi molte più domande sull’estetica e sulla stessa fotografia come mezzo espressivo.
Il viaggio di Mulas era cominciato dall’arte e dalle sue frequentazioni di studente a Brera, per poi estendersi da metà degli anni ’50 ad ogni tipo di reportage, all’architettura, alla moda, al teatro e ritornare, dopo un giro di dieci anni, all’arte. Più precisamente, agli artisti, che Mulas spiò nell’intimità dei loro studi e dei loro processi creativi: nel caso di Lucio Fontana, ne raccontò l’ordine, rispettando nelle sue fotografie le simmetrie degli spazi in cui essi lavoravano e vivevano, ma cercò anche di trasmettere il caos che contraddistingueva l’ambiente produttivo di Mario Schifano o di James Rosenquist. In ogni fotografia di Mulas la composizione precisa e studiata rispecchia l’atmosfera degli studi e l’identità dei loro proprietari.
Non stupisce che lui, che in una ventina d’anni ha indagato con la sua macchina fotografica praticamente qualunque campo, abbia cercato anche di tornare ad un punto zero. Sui muri della Lia Rumma di Milano c’è allora soprattutto quell’Ugo Mulas alla ricerca dell’origine di tutto. Come i filosofi che nella Grecia antica si interrogavano sull’archè, Mulas si interroga sullo statuto della fotografia, abbracciandone le questioni meccaniche, chimiche e soprattutto ontologiche… Domande che probabilmente non era solito porsi vent’anni prima, quando Mario Dondero gli mise in mano la macchina fotografica e gli spiegò come scattare, ma che si fanno centrali nella sua produzione a partire dal 1969.
Un fotografo l’archè non può ritrovarla che in Niépce, l’autore della prima fotografia della storia. A lui dedica la prime Verifiche (quelle del 1968-70). La ricerca passa attraverso il nero di un negativo che non è mai stato impressionato dalla luce e che viene interrotto solo dai contorni dello stesso negativo, scomposto in ogni suo dettaglio e poi ricomposto, fino ad arrivare a ri-presentarlo nella sua totalità, compresa la sua ultima virgola bianca. «È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica», spiegava. E così, Mulas, ha trovato anche la fine, oltre al principio.
Foto: Ugo Mulas, Autoritratto con Nini. Per Melina e Valentina (part.), 1972. © Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli.