Nel Il marito di Lolo di Jaccoud che il Parenti rappresenta con Pietro Micci in una palazzina negli spazi della Piscina, si vive l’angoscia del desiderio per una pornostar davvero esistita
Lolo è amore, Lolo è sesso, Lolo è ossessione, Lolo è tette. È nell’ideologia del seno della pornostar Lolo Ferrari, maggiorata oltre ogni ragionevole dubbio e scomparsa tragicamente nel 2000, che si consuma la tragedia dell’opera di Antoine Jaccoud. Il marito di Lolo, tradotto per la versione italiana da Colette Shammah, è un monologo che Andrée Ruth Shammah, cui è affidata la direzione artistica dello spettacolo, colloca nella programmazione artistica del Parenti, ospitandolo nella palazzina in restyling dell’ex centro balneare Caimi.
Benedetta Frigerio, assistente storica di Shammah e realizzatrice della messa in scena, immerge il testo in un ambiente caldissimo e scarnificato, il luogo ideale dove poter soffrire. E dove lasciarsi dilaniare dalle parole, dai ricordi, da quei desideri che occupano uno iato indefinibile tra volontà e ardimento. Come capita al protagonista, André, un fornaio allergico alla farina che passa il suo tempo tra seghe – un tempo parametro sconcio di trasgressione, oggi misuratore cospicuo di fallimento –, immaginazioni e missive: quelle che invia ai suoi beniamini, alle riviste, all’adorata Lolo Ferrari dalle infinite mammelle. La incontra? La somatizza? Importa davvero?
Lolo è come un sogno, come un alieno. È immortalata in un’effigie crocifissa su un muro spoglio, è immaginata su una carriola che ne trascina il petto, è sognata da una mente paziente e gentile. Come l’amore di André per la sua musa, e per i seni della stessa, “due bambini malati”. Sentimento è togliere la fasciatura dai seni freschi di chirurgia, “come a Natale”.
Pietro Micci è un protagonista febbrile, di vocazione squallida, macilento ma solidissimo: la sua interpretazione è perfetta, e spesso migliore del testo cui si affida con carnalità assoluta. Le parentesi ripetitive e spesso estenuate fino al martirio della sua sofferenza, che ogni tanto perdono un po’ di smalto e di ritmo, non intaccano nemmeno un po’ una performance fragrante, viva nella morte, realmente sentita. Non solo diventa André, ma ne testimonia con estrema meticolosità la perniciosa componente umana. E il suo dolore profuma e puzza, a suo piacimento.
(foto in rilievo di Fabio Artese)