La crisi del lavoro in salsa catalana

In Teatro

Quattro esseri (dis)umani, una selezione feroce, un nuovo lavoro all’orizzonte. Un gioco al massacro al centro di una scoppiettante tragicommedia dal ritmo altalenante, ma ben recitata

Il lavoro è crudele. Il lavoro è meschino. Il lavoro è alienante. Lo sa bene chi ce ne ha uno, chi lo ricerca in maniera spasmodica. Chi si lascia irretire dalle sue dinamiche, chi ne fa uno strumento per stabilire la propria supremazia morale sui più deboli. Lavoro, lavoro, lavoro.

Ne parlano le statistiche, ne parla la contemporaneità tutta e ovviamente anche il teatro non si può esimere.

Ne è un esempio Il metodo, traduzione italiana di El Metodo, superacclamata pièce del catalano Jordi Galceran (classe 1964) che ritorna sul palco del teatro Manzoni nella versione diretta da Lorenzo Lavia, e interpretata da un quartetto d’attori di grido, perlomeno sulla carta: Giorgio Pasotti, Fiorella Rubino, Gigio Alberti e Antonello Fassari. Proprio le interpretazioni rappresentano il vertice più alto di questa tragicommedia, dal sapore squisitamente catalano, che racconta di impieghi e angherie, di selezioni del personale che avvengono seguendo schemi paradossali e ai limiti dell’assurdo. Un gioco al massacro dove le maschere hanno forme deformi e sempre inattese, e dove i colpi di scena si susseguono al gusto del macabro e del disumano.

Non c’è rispetto per nessuno, nella precaria e lattiginosa scenografia che fa da apertura – e da unica cornice – allo sviluppo della scena: un enorme tubo, un cilindro trasparente arriva fino al centro del palco. È da lì che i «caporioni», le teste pensanti in seno alle Risorse Umane, mettono alla prova i quattro protagonisti per offrir loro un impiego. Tra di loro si nasconde una talpa, un infiltrato, qualcuno che dall’alto vuole sondare le eventuali contraddizioni o il reale valore dell’aspirante, nuovo lavoratore. E allora via alle prove, alle torture, ai giochi di ruolo che scavalcano la finzione e solleticano la realtà fino a stuzzicarla in maniera irreversibile. Chi ne uscirà vivo? O meglio: chi ne uscirà?

I quattro rappresentano un discreto bestiario di umanità: il vanesio bastardo, la femme fatale ambiziosa, il lavoratore indefesso, il sempliciotto. Ognuno di loro ha un segreto da nascondere, ognuno di loro ha una buona ragione per sentirsi in difetto. Ma quanti di loro dicono davvero la verità? E soprattutto, qual è la verità? Non la sapremo mai, nemmeno sul finale: quello che vediamo potrebbe non essere reale. Il disvelamento dei ruoli è direttamente proporzionale alla crudeltà di un metodo, quello del titolo, che non conosce scampo, invischiato in geometrie che lasciano pochi spazi all’umanità. Sulla carta, un tema interessante, che la regia di Lorenzo Lavia asseconda con grazia nella prima parte dello spettacolo: le luci stranianti, l’atmosfera che unisce echi pinteriani e kafkiani – due numi da cui la voglia di alienazione, perlomeno sulle scene, pare non poter prescindere – e il gioco d’interpreti bene si intersecano tra loro. A metà opera, purtroppo, il vortice rotativo degli avvenimenti e il ritmo eccessivamente serrato portano l’operazione a sbandare verso una certa prolissità, per nulla supportata dai ricorrenti colpi di scena che finiscono per soffocarne l’animo, e renderne poco credibile – seppur nei bordi dell’assurdo – la struttura.

Un po’ noir, un po’ giallo, un po’ dramma: nella pièce tanta è la carne al fuoco, molteplici le questioni messe sul piatto e affrontate. E il lavoro diventa un pretesto per raccontare, in fondo, quanto l’inclinazione dell’umano sia quella a mentire, a mostrarsi per quello che non è realmente. E per capire questo… il metodo non l’abbiamo ancora scovato. E chissà quando accadrà.

(Per il video si ringrazia Teatro Manzoni) 

Il metodo, di Jordi Galceran, al Teatro Manzoni fino al 22 maggio

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