Fino a dicembre, Andrée Ruth Shammah porta in scena con una numerosa e affiatata compagnia un Molière rigorosamente secondo tradizione. Che sa funzionare proprio per questo
Se il teatro è tra le poche forme di rito secolare ancora rimaste, come ogni rito esige le sue formule. Parole che, per essere efficaci, chiedono esattezza e fedeltà. Al Teatro Franco Parenti Molière è sacro. Così, Andrée Ruth Shammah, sceglie di portare in scena – nella sua ultima regia del classico più amato – un Misantropo rigorosamente filologico.
E del resto, spiega, non potrebbe essere altrimenti per un testo che sulla scena e per la scena è nato e nella messa a punto in palcoscenico trova la sua forma. Si conservano, quindi, non solo i versi, ma persino la rima, sostenuta dal lavoro di un poeta di chiara fama come Valerio Magrelli.
Una scelta di campo che investe – quasi – ogni aspetto della messa in scena, in cui Shammah si assume la responsabilità di una regia la prima volta affidata a Franco Parenti, anche protagonista.
Il primo artefice dello spettacolo, Luca Micheletti, baritono di fama internazionale, trova il tempo per la prosa a patto di poter “scritturare” la padrona di casa per portare in scena il principe dei drammaturghi francesi.
Imbarcati nell’impresa, il resto è filologia, perché, rivendica la regista, «Se Molière è attuale, contemporaneo, non ha bisogno di noi per dimostrarlo. Lo sforzo deve essere quello di alzarsi verso un capolavoro e non di tirarlo a sé. Quando gli spettacoli vengono attualizzati ma i pensieri sono vecchi, si è solo abbassato un grande. Altrimenti, basta lasciare che parli lui».
In effetti, in scena fino all’8 dicembre va un lavoro di disciplina e rigore, con una compagnia numerosa che mescola con grande efficacia giovani di valore che al Parenti sono di casa (Filippo Lai è un Clitandro esilarante, che rilegge con furbizia la figura del cicisbeo da operetta, e insieme gli fa brandire come un’arma tutta la propria spietata gioventù) con nuovi innesti di esperienza. Angelo di Genio, per la prima volta al Parenti, è l’accorto Filante, il doppio misurato di un Micheletti Alceste in cui la consuetudine con la lirica si legge tutta, e se ne trae il fascino.
L’esercizio forse più difficile è sfuggire alla gabbia della rima, aggirare la trappola del verso cantato cui il testo li espone, con il rischio di far annacquare la pregnanza di un testo (in cui non è difficile trovare temi e annotazioni di attualità sconcertante) dentro a un ritmo che offre alla commedia tutti i connotati dell’opera buffa.
La riflessione sull’attualità è importante, proiettata in un tempo dove la misura dell’adulazione è meno ampollosa ma di certo altrettanto abituale a quella grottesca e spietata portata in scena da avanzi di corte impegnati a non aver nulla da fare.
Fa sorridere riconoscere nell’Oronte ridicolo di Corrado D’Elia uno qualsiasi degli aspiranti “famosi” di oggi o degli autoproclamati scrittori arresi al demone del vanity publishing.
Il merito della regia – che qui ancora più del solito è concentrata nel restituire all’attore, e di conseguenza allo spettatore, il senso di ogni gesto – è cercare la multidimensionalità dei caratteri, in una galleria di emblemi, svelare le trame e le spinte interiori.
Se la Eliana di Maria Luisa Zaltron è l’equilibrio di chi rifiuta gli eccessi del sentimento anche quando ne gioverebbe (il doppio al femminile di Filante) venendone ricompensata, ed esplora senza ironia la fatica di star dentro a un sentimento assoluto, e ne guadagna in efficacia, l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti è la perfidia che si nasconde dietro la virtù, quel “ridicolo della virtù” con cui Rousseau aveva sintetizzato la commedia, che si tramuta in mostruoso.
La tradizionale fatuità di Celimene, incarnata da Marina Occhionero, prende invece la forma non già della civetteria ma della bulimia d’esistenza della passione, quando è vissuta da una ragazza troppo giovane per non aver terrore dei limiti che impone.
Per permettere di tenere ferma la barra del senso, però, occorre un gran lavoro sul dispositivo: una scena – a firma Margherita Palli – che doppia ed espande il teatro che la ospita, fino a rendere visibile il passaggio tra scena e fuori scena, e giochi di luce talvolta ironici anch’essi, di Fabrizio Ballini.
In scena ognuno ha un suo tono – talvolta squillante, come quelli dei costumi di Giovanna Buzzi -, ed è invitato a modularlo. Dentro una lingua “ammaliante” e “piena di doppi fondi”, che per funzionare senza che il suono la disinneschi richiede uno sforzo alla valente compagnia, completata da Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Francesco Maisetti, l’imprescindibile Andrea Soffiantini, e Vito Vicino.
Una tortuosità, la rima baciata, che amplifica indubbiamente l’effetto comico, ma rischia di annebbiare, se lo spettatore non impone al proprio orecchio lo stesso impegno di chi in scena modula con cura le pause per spezzare i versi, la centralità delle parole, che sono – spiegano i protagonisti – il cuore dello spettacolo stesso, nella loro quasi totale impossibilità di diventare strumento per capirsi, e veicolo dei sentimenti. Con le parole, ciascuno nega ciò che sente e si condanna se stesso, come Alceste alla propria solitudine.
Ci si gode così un piacevolissimo esercizio di teatro nel suo senso più classico, ritmato e rapido come scorrono le quasi tre ore di messa in scena, evitando con agilità le note di passato, per raggiungere quello che la regista evoca come un punto di arrivo: del resto, è solo quando si è accumulata strada a sufficienza che si può tornare, con consapevole levità, dove si è partiti.