L’eccezionale Imma Villa tiene in vita se stessa e il pubblico con la creatività espressiva dello Scannasurice di Enzo Moscato, fatta di frasi cupe ma seducenti
Enzo Moscato non è un autore consolatorio, e il suo Scannasurice non è un inno alla Bella Napoli che rimane tale all’insegna dello “scurdámmoce ‘o passato”, risorgendo sorridente e “senza pensieri” cataclisma dopo cataclisma.
Scritto all’indomani del terremoto dell’Irpinia, che produsse 280.000 sfollati tra Campania, Basilicata e (in misura minore) Puglia, Scannasurice – ora in scena al Piccolo Teatro Grassi per la regia di Carlo Cerciello fino al 19 maggio – è un testo schiacciato tra un crollo e l’altro, e il suo omonimo eroe/eroina è costantemente tentato dall’idea di rannicchiarsi – per non uscirne più – sotto le macerie che sono diventate la sua casa, parola che pronuncia con reverenza e rimpianto.
La capacità affabulatoria è l’unica cosa che permette al femminiello Scannasurice di riscuotersi dal proprio stato di privazione e di prostrazione, sebbene con degli effetti soltanto provvisori. Istintivamente Scannasurice evita di assumere toni agrodolci da neorealismo rosa: non vuole e/o non riesce a edulcorare la propria esperienza trasformandola in un racconto in stile Pane, sorci e fantasia (perché di topi, e non di amore, è ricca la sua vita). Scannasurice parla a se stesso per sottrarsi alla follia, inebriandosi della fantasmagorica precisione e vividezza con cui si/ci racconta il suo microcosmo, con un’inventiva popolaresca simile a quella che – nel periodo in cui Moscato scrisse questo monologo – caratterizzava anche l’attore lancianese Alfredo Cohen, nella bocca del quale il banale dell’esistenza della povera gente diventava delirio e parossismo.
Rispetto all’incarnazione maggiormente ricordata di Cohen, cioè la Mezzafemmina abruzzese, il misero Scannasurice vive anche la situazione dell’emergenza e della precarietà su tutti i fronti. Confrontandolo poi con la pur jellatissima Rosalinda Sprint, il travestito/prostituto di Scende giù per Toledo, scritto da Giuseppe Patroni Griffi cinque anni prima del terremoto, Scannasurice non è nemmeno nelle condizioni per proteggersi dalla realtà cullandosi con fantasie amorose, se non brevissime e stroncate sul nascere da un’atroce autoconsapevolezza.
Tutto ciò che circonda Scannasurice infatti gli ricorda la sua condizione di topo in trappola, ed è proprio il rispecchiarsi con le bestiole pelose che brulicano attorno a lui che esaspera il suo astio nei confronti dei sorci stessi, metafora di una vita che si nutre di scarti.
Il monologo poggia sulle spalle dell’eccezionale Imma Villa, letteralmente posseduta dalle parole di Moscato, che fuggono nelle tenebre con una fluidità che lascia basiti e affascinati, ma anche e soprattutto inquieti persino nei momenti di leggerezza. La mimica della Villa passa dalla dolcezza lunare di Dominot, eternato da Fellini nei panni del travestito che compare nel finale de La dolce vita, alla mostruosità espressionista dei personaggi di Lon Chaney.
Guidata con paradossale grazia dal regista Cerciello tra le geometrie disfatte della scenografia di Roberto Crea, Imma Villa tiene in vita se stessa e il pubblico con la creatività espressiva delle sue frasi ridondanti e cupe, attorcigliate ma seducenti… e quando il suo Scannasurice, infine, si abbandona al silenzio, attendendo una morte pudica, moriamo per un attimo con lei.
FOTO © ANDREA FALASCONI