In tempi, di nuovo, di quarantene domestiche e distanziamento sociale, una riflessione su Edward Hopper (1882-1967)
“La solitudine condiziona l’originalità, l’audace e sorprendente bellezza, la poesia, ma condiziona pure il contrario: l’abnorme, l’assurdo, il proibito” – Thomas Mann, “Morte a Venezia”
Gli artisti che sopravvivono al loro tempo e restano nella memoria dei posteri si dividono in due categorie: i fuoriclasse e gli artisti iconici. I primi sono quelli che si distinguono da tutti gli altri per talento e fama, quelli che insieme a grandi scienziati, statisti e poeti sono considerati i grandi uomini del loro tempo. I loro nomi sono incisi indelebilmente nella storia della cultura occidentale.
I secondi non hanno la stessa nomea, ma hanno la fortuna di aver prodotto immagini inconfondibili, divenute vere e proprie icone, che vengono ad essi associati in modo automatico e immediato.
Penso alle madonne di Guido Reni, ai tagli di Fontana, alle figure di Botero.
Penso alla solitudine di Hopper.
I sopracitati sono riusciti a diventare immortali per aver reso iconica una figura, una tecnica, uno stile.
Edward Hopper è il solo artista che mi venga in mente che ha reso come inconfondibile cifra stilistica delle sue opere l’espressione di una condizione umana.
La vita di Hopper non presenta nessuna delle caratteristiche tipiche delle biografie dei grandi artisti; nato in un piccolo sobborgo urbano fuori New York, trasferitosi lì per studiare e poi vivere, sposato, ricalca perfettamente i lineamenti della media borghesia americana.
Non è un personaggio fuori dagli schemi, anzi sembra si trovi a suo agio nel rispettarli pedissequamente.
E solo una persona del genere, un anti-personaggio, poteva diventare maestro nel raffigurare la solitudine e la malinconia della società occidentale. I suoi soggetti non appartengono alla classe operaia o contadina, non muoiono di fame né rischiano la vita; sono assolutamente normali, mediocri, e ci comunicano amarezza perché sono tristi senza un apparente motivo. Sono infelici anche se non dovrebbero esserlo, sono in silenzio anche se si trovano in un luogo pubblico, hanno gli occhi sbiaditi e slavati anche se sono illuminati da una giornata di sole.
Sono soli.
Prendiamo “Room in New York”, del 1940.
Assistiamo ad una classica scena di vita familiare. Illuminati dalla luce artificiale una coppia cerca svago e distrazione all’interno di un salotto borghese. L’uomo legge il giornale, la donna suona il piano. Si tratta di un momento intimo, che potrebbe essere gioioso ed esclusivo, e invece colpisce nella sua drammaticità. I volti dei due individui sono diretti verso gli oggetti che attirano la loro attenzione, e ne vengono letteralmente assorbiti. La scarsa illuminazione che caratterizza i loro visi, all’interno di uno spazio così ben illuminato, illustra una sensazione di angosciosa solitudine in un luogo condiviso.
I due personaggi, assorbiti nelle loro attività, rifuggono il ruolo da protagonisti che in un primo momento si attribuisce loro. Ma se non sono essi il soggetto principale del quadro, qual è?
È qui che entra in gioco la struttura fondamentale che accomuna la maggior parte delle opere di Edward Hopper: la finestra.
Attraverso la finestra lo spettatore viene introdotto in uno spazio privato, ma senza trovarcisi dentro. Lo fa dall’esterno, e percepisce di non essere stato invitato a partecipare di tale momento.
Questo viene accentuato dai contrasti cromatici tra gli interni e l’esterno, le differenze di colori e ombre. Il punto di vista inoltre produce un’angolazione quadrata e regolare, creando a tutti gli effetti un quadro nel quadro.
Il protagonista del quadro è perciò lo spettatore, che spia all’interno dell’appartamento e riflette su quante volte egli stesso abbia provato quelle stesse sensazioni.
Ed è questo il motivo della presa di Hopper sul pubblico. Egli non mette in scena le serate di festa, quei momenti speciali che tradizionalmente si erano conquistati il merito di essere degni di venir raffigurati su tela per essere cristallizzati nel tempo. Edward si concentra sulle altre serate, quelle comuni e ripetitive, silenziose e malinconiche.
Hopper è così bravo nel farlo che riesce a creare una situazione di clausura anche in un’ambientazione all’aperto. In “Summer Evening” del 1947, egli dipinge una coppia appoggiata al muretto di un vestibolo esterno di una residenza estiva.
È notte, e la fredda luce artificiale illumina la scena. Sullo sfondo vediamo l’erba muoversi sotto il soffio della brezza, eppure l’impatto che comunica il quadro non è quello di un luogo arioso, ma claustrofobico. I due soggetti guardano entrambi lo stesso punto, focalizzato a mezz’aria, nel vuoto.
Hanno la testa inclinata e lo sguardo che ondeggia tra il pavimento e il luogo dove si trovano. Hopper è riuscito a rapire il silenzio che precede le conversazioni che si preferirebbe non affrontare. Anche quest’opera, come la precedente, dà delle sensazioni uditive nettissime.
Il silenzio riempie l’aria e ovatta ogni altro suono. Il gioco di inquadrature (poiché sembra un fotogramma di una pellicola più che un quadro) è qui ancora più virtuoso.
Le colonne del porticato inquadrano frontalmente la scena, con la porta da cui sono usciti e che li attenderà alla nostra sinistra, e le due figure alla nostra destra. Ma essi vengono ritagliati anche dal riquadro che si forma alle loro spalle, rispetto al quale si trovano perfettamente al centro.
Non sono loro a guardare il paesaggio, come nei dipinti impressionisti che ispirarono il giovane Hopper, ma è il paesaggio a guardare loro, mentre attende che succeda qualcosa.
Ed è per questo motivo che Hopper sta vivendo una nuova inaspettata diffusione. Sui social network rimbalzano i suoi quadri, soprattutto quelli dove individui solitari scrutano l’orizzonte dalla loro camera, e conoscono nuova vita grazie alla cultura virale del meme. Poche altre immagini, anche tra quelle moderne, sono in grado di descrivere la situazione attuale della quarantena, di chi guarda fuori dalla propria finestra e si sente osservato.
Osservato da chi allo stesso modo guarda fuori dalla propria abitazione, e cerca attraverso il contatto visivo una forma di contatto umano.
Osservato dai lampadari e dalle siepi, che aspettano che qualcosa succeda.
Nei dipinti di Hopper c’è tutto: l’audace, la poesia, la bellezza dei colori. E poi l’assurdo, l’abnorme, il proibito dei silenzi. Proprio come scriveva Thomas Mann.
Immagine di copertina: Edward Hopper, Morning Sun, 1952