Fascismi: da “Le venti giornate di Torino” di De Maria all’attento di Macerata
Qualche settimana fa sono andato per la prima volta a Torino. Mentre camminavo per le vie della città, forse perché infreddolito, affamato e stanco, non riuscivo a togliermi dalla testa due pensieri: il primo era l’annotazione disperata di Kafka di “non andare a Torino. A nessun costo”; il secondo era la descrizione della città che emergeva ne Le venti giornate di Torino di Giorgio de Maria, con la sua architettura ctonia e brutale. Poi mi sono riscaldato, ho mangiato e dormito, e quella sensazione è scomparsa. Eppure, proprio il giorno dopo che sono tornato a casa – nella ben più rassicurante architettura umbra -, c’è stato l’attentato fascista di Macerata. E, nel silenzio politico che ne è seguito, ho realizzato di non essere mai uscito da Le venti giornate di Torino, in effetti, nessuno di noi lo è: siamo tutti dentro il romanzo di De Maria.
Il libro di De Maria ha come sottotitolo “Inchiesta di fine secolo”. In una Torino di fine Novecento, infatti, uno storiografo amatoriale, di cui non conosciamo il nome, sta indagando su un eccidio che si è compiuto dieci anni prima, le cosiddette Venti giornate di Torino, quando durante un’ondata di insonnia collettiva, molte persone furono trovate massacrate. L’uomo, quindi, inizia a intervistare i famigliari delle vittime e a cercare delle prove su quello che è successo e su chi si cela dietro questo massacro. Man mano che l’indagine procede, apppare sempre più chiaro che le venti giornate non si sono mai veramente concluse.
Pubblicato per la prima volta nel 1976, Le venti giornate di Torino è stato riscoperto soltanto nel 2017. Fatto ancora più peculiare, la riscoperta è avvenuta negli Stati Uniti, grazie all’interessamento di Ramon Glazov, critico e traduttore australiano (seppur gli sia stato consigliato da Luca Signorelli, quando gli chiese un libro italiano da poter tradurre). In seguito al grosso interessamento d’Oltreoceano, Frassinelli ha deciso di ripubblicare il libro di De Maria.
Uno dei motivi che ha spinto la riscoperta è la Biblioteca, la cui descrizione sembra anticipare i social network. La Biblioteca, dall’oscuro sapore borgesiano, era un luogo dove le persone potevano lasciare i propri manoscritti, scrivendo tutto ciò che volevano, spesso abbandonandosi alle più turpe confessioni: “Tutto poteva avere accesso alla Biblioteca: prodotti gracili o innaturalmente rigonfi; talvolta dotati di una ingenuità disarmante in un mondo di furbi. Capolavori capitati per caso ma irriconoscibili come sarebbe introvabile un granello d’oro in una distesa di sabbia. Manoscritti le cui prime cento pagine non rivelavano alcuna anomalia, e poi a poco a poco franavano verso abissi di follia senza fondo; o che, normali in tutto agli inizi e alla fine, nascondevano all’interno voragini paurose. Altri invece concepiti con puro spirito di cattiveria”. Nella Biblioteca i manoscritti erano messi a disposizione delle persone, che potevano consultarli e sapere chi aveva scritto cosa, magari per contattarli. Ma lo scopo ufficiale della Biblioteca di aiutare le persone a mettersi in contatto fra loro è soltanto di facciata. Infatti, agli autori stessi degli scritti non importa la ricerca dell’altro, quanto più sono concentrati in un soliloquio egotistico – emblematico è il caso della lettera che riceve il protagonista, con l’uomo che nemmeno si premura di leggere la risposta, nonostante dichiari di voler qualcuno con cui parlare. Questa discrepanza fra ciò che viene dichiarato ufficialmente e il reale utilizzo è la stessa che si trova negli attuali social network, basti pensare alla scritta della schermata iniziale di Facebook che dichiara di voler farti “rimanere in contatto con le persone delle tua vita”. O del perché Facebook si consideri un po’ come una sedia.
Ma sarebbe riduttivo, in fondo, vedere nella Biblioteca unicamente la previsione, quasi profetica, dei social network. De Maria non anticipa tanto i nostri tempi, quanto riesce a descrivere acutamente la sua di attualità. Con la Biblioteca, De Maria riesce quasi a profetizzare i social network, con la loro caratteristica di voyeurismo mista al narcisismo, perché sono soltanto l’ultima e più evidente espressione di un meccanismo che già era in atto negli anni ’70: l’atomizzazione della società.
Le venti giornate di Torino è un libro che stimola la sua rilettura in un’ottica di attualità, ne sono un esempio il saggio Il diavolo è nei dettagli di Giovanni Arduino o l’articolo di Sara Marzullo. Anche per me, è stato inevitabile iniziare citando il collegamento spontaneo fra De Maria e l’attentato di Macerata. In particolare, quello che ha portato a questa connessione, lunga quarant’anni, è il modo con cui De Maria affronta il neo-fascismo.
Durante la sua indagine, il protagonista si ritrova seguito da dei ragazzi “ben pettinati e ben vestiti, senza traccia di peluria sui volti sempre rosei e sorridenti”. Questi, nel quadro descritto da De Maria, sono coloro che gestivano la Biblioteca, e che, come si scopre man mano che l’inchiesta procede, hanno alle loro spalle “forze oscure, organizzazioni nazionali e internazionali bramose di rivincite a causa di certe recenti sconfitte subite”. De Maria non lo dice mai esplicitamente, ma i richiami sono piuttosto chiari verso i movimenti neo-fascisti, soprattutto se si pensa che il libro è stato scritto nel 1976, nel pieno degli Anni di Piombo, fra le stragi dinamitarde fasciste e tentativi di golpe. De Maria, quindi, scrive in un clima in cui le venti giornate di Torino, con i suoi massacri e le sue “forze oscure” in azione sono qualcosa di più concreto e tangibile che una mera fantasia. È proprio questa atmosfera che De Maria riesce a imprimere nelle pagine: non tanto la cronaca degli attentati che si susseguono, quanto più il silenzio angoscioso e la commistione di oscuri poteri che nascondono. In questo, Le venti giornate di Torino è un libro profondamente figlio dei suoi anni e del suo clima culturale, e De Maria stesso ne è il primo a esserne consapevole, tanto da citare in modo piuttosto diretto Elio Petri (Todo Modo, ma soprattutto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) e l’Io So pasoliniano.
Eppure, leggendo il libro non si ha mai l’impressione di una situazione datata. Tutt’altro. Questo perché, proprio come per la Biblioteca e i social-network sono riconducibili a una medesima generalizzazione, il neo-fascismo di De Maria è la materializzazione storica specifica di un fenomeno mutevole e ben più generale: ovvero, quello che Eco definì, in un articolo, Ur-fascismo, e di cui noi oggi stiamo vivendo una differente concretizzazione.
L’Ur-fascismo, o come propone lo stesso Eco, fascismo eterno, è la forma in potenza del fascismo, che poi, nel momento della sua realizzazione storica, può assumere forme anche in conflitto fra loro. Dall’Ur-fascismo, cioè, originano i fascismi specifici: “Fascismo è diventato un termine che si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al Fascismo l’imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il Fascismo balcanico. Aggiungete al Fascismo italiano un anti-capitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al Fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola”. (In parte, l’articolo tradotto si trova qua). Personalmente, mi aiuta immaginare l’Ur-fascismo come un grande tronco da cui si separano poi i diversi rami dei fascismi: il ramo del neo-fascismo degli Anni di Piombo di De Maria non è ovviamente il nostro di ramo, ma il tronco è sempre quello.
Eco nel suo articolo indica quattordici caratteristiche dell’Ur-fascismo che, basta si realizzi una soltanto, per essere di fronte a un fenomeno fascista. Ora come ora non sono interessato a fare una sorta di ce l’ho, mi manca delle caratteristiche fasciste, quanto più vorrei sottolineare un punto basilare del discorso di Eco riguardo la mutevolezza del fascismo: “L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane”. Ahimè, la vita non è così facile e l’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti”. L’importanza di Le venti giornate di Torino è quella di riuscire a mostrare queste spoglie e a indicarcele senza mezzi termini anche a distanza di quarant’anni.
Ne Le venti giornate di Torino, De Maria mette in scena l’intero processo di destabilizzazione della democrazia. Innanzitutto, andando a svelare, seppur implicitamente, le forze in azione, caratterizzate dalla commistione fra vecchi poteri e nuovi movimenti – le statue, la Chiesa, i ragazzi perbene; poi descrivendo le due armi che utilizzano: l’atomizzazione sociale, grazie alla Biblioteca, e lo stragismo. Infine, De Maria si concentra su come le persone reagiscano alle venti giornate. Il racconto stesso parte dall’intenzione del protagonista di portare alla luce la verità, ma, in fondo, si ha la sensazione che la verità sia un segreto di Pulcinella: chiunque, chi più chi meno, sa cosa si nasconde dietro quelle stragi. Eppure, è come se vigesse un’implicita regola del silenzio e della rimozione. Si arriva addirittura a una sorta di interiorizzazione della violenza nei movimenti millenaristi, che trasformano il ricordo e la paura in un culto del potere stesso. Anche chi sa e decide di non piegarsi, è comunque schiacciato nel silenzio e nell’incapacità di comunicare ciò che è accaduto (e che sta ancora accadendo). L’unico barlume di speranza in questa cappa di oppressione silenziosa è lo squarcio che si apre quando il protagonista, verso la fine della sua indagine, si imbatte in uno spettacolo di marionette che mette in scena le venti giornate di Torino. Sembra che solo tramite l’arte sia possibile portare alla luce il (volutamente) rimosso.
Come ricorda Arduino nella sua post-fazione, Le venti giornate di Torino è un libro maledetto, e come ogni libro maledetto che si rispetti vive e addirittura rinasce grazie alle coincidenze. E, a proposito di coincidenze, proprio mentre stavo scrivendo questo articolo, mi sono imbattuto in un vecchio racconto di Dino Buzzati, In fondo alla soffitta. Scritto nel 1946, è la storia di una domestica che scorge nella soffitta del condominio un mostro. Impaurita corre dalla portinaia che manda il marito a controllare, ma l’uomo minimizza e ride dicendo che è soltanto un sacco da pesca. La domestica, però, non è convinta, e anzi, il fatto che da quel momento in poi la porta della soffitta sia chiusa con un chiavistello la insospettisce ancora di più. Gli sguardi della portinaia e del marito, ma anche di tutti gli altri condomini, perfino della sua datrice di lavoro, anziché rassicurarla, aumentano soltanto la sua paranoia e la sua angoscia.
Questa tensione fra il silenzio e il riconoscimento della realtà è la stessa che si vive ne Le venti giornate di Torino: alcuni personaggi preferiscono fuggire, altri dedicarsi a culti millenaristi di rimozione, altri ancora vengono uccisi proprio perché non vogliono stare in silenzio. Ma non è difficile scorgervi anche la tensione che stiamo vivendo in questi anni: da una parte la tentazione di ridere, scuotere le spalle, i mostri non esistono più, ma cosa ti passa per la testa?, dall’altra, proprio come la domestica del racconto di Buzzati, la spinta, una volta scorto il mostro, a non far più finta di niente e arrivare a riconoscere che anche nella nostra di soffitta, da chissà quanto tempo, ci sta un mostro: il fascismo.