Il NO di Annalisa Limardi, tra Performance e Teatro

In Arte, Teatro

All’interno del Festival Hors tenutosi al Teatro Litta di Milano, il 27 settembre scorso è andata in scena NO, opera prima scritta, diretta e interpretata da Annalisa Limardi, che si pone al confine tra performance e teatro con grande maturità e sorprendente impatto emotivo.

Mi ritrovo molto nelle parole di Flaiano, quando diceva di non saper giudicare uno spettacolo se non come una persona viva. Con tutti i suoi pregi può essere detestabile, oppure di contro amabile per i suoi difetti. Può apparirci insignificante se troppo carica di abbellimenti, e misteriosa se è semplice, naturale, in una parola se si accetta per quello che è.


Mi fermo alla prima impressione, la più profonda; così osservo se uno spettacolo vive, pensa, dorme. Se si mostra soltanto, è un’esibizione. Il suo ricordo può seguirmi per qualche giorno, “indignarmi” per la sua inutilità. Se invece respira e parla, se l’attrice ha l’aria di trovarsi all’interno dello spettacolo a suo agio, insomma di abitarlo, esso restituisce anche una immagine della sua vita, che entra a far parte dell’esperienza dello spettatore e si confonde con il deposito dei fatti realmente accaduti.
Uno spettacolo è tanto più importante quanto più impegna lo spettatore nella sua autobiografia, la chiarisce. Ed è forse per questo, tornando a prima, che non riesco a giudicare una piecé se non è già in me, nello stato di ansioso dormiveglia. Posso ammirarne la ricerca, l’abilità, gli sforzi e detestarlo mesi dopo per gli stessi motivi. Ma commuovermi, questo è raro.


È successo osservando la performance di Annalisa Limardi, NO, all’interno del Festival Hors tenutosi al Teatro Litta (storico teatro milanese che purtroppo non riesce quasi mai ad avere spettacoli degni di nota, se non in rarissime occasioni). Opera prima, scritta, diretta e interpretata, Limardi porta sul palcoscenico uno spettacolo ibrido, tra il teatro e la performance; sola nella scena, illuminata con delle semplicissime luci, si confronta con un microfono che relaziona le richieste del mondo esterno interiorizzandole e facendoci i conti con una maturità difficilmente riscontrabile nel panorama attoriale contemporaneo.


Il microfono, che comunica sempre con la voce registrata e leggermente alterata meccanicamente dell’attrice, diventa man mano portavoce sempre più forte di un disagio personale che non cade mai sulla facilità di invenzioni sceniche, ma diventa condivisibile abbandonando un linguaggio carico di morbose sofferenze. Limardi è una macchina attoriale. Diventa amplificazione del testo, disarticola il proprio corpo, a cui nega il possesso, e la propria volontà; esce da sé stessa, smettere di essere e concepirsi. Riporta in auge la teoria e soprattutto la pratica di Carmelo Bene, assimilandola facendola sua, carpendo la necessità del Teatro.


L’attrice si muove sul palcoscenico con movimenti complessi snodandosi nelle varie frazioni dello spettacolo; la cosa che forse colpisce maggiormente è il ritmo che in poco più che mezz’ora sale e scende continuamente come una frequenza cardiaca trascinando lo spettatore di volta in volta a dei frammenti di rappresentazione sempre diversi, dal dramma alla costruzione di un “concerto” pop/rap. Non mancano momenti di stallo, in cui ci si ritrova con l’acqua alla gola cercando di prendere fiato prima che la voce dell’artista riprenda a inondare il pubblico di parole legate tra loro dallo stesso filo conduttore: quello del suo microfono.
Dello spettacolo, dopo questa continua fibrillazione, quello che rimane si è sciolto nell’estro di una performance che vuole arrivare ad una revisione del terrore, ad una sua utilizzazione come ironia letteraria.

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