La Storia e le storie dell’India che si fa nazione, voltando le spalle al Mahatma Gandhi

In Cinema

Il drammatico 1947 della “partition”, che sancì la fine della colonizzazione inglese con la creazione di un grande stato indù e di uno più piccolo musulmano, il Pakistan, sono al centro di “Il palazzo del vicerè”, diretto dalla regista anglo-keniota (ma di origini indiane) Gurinder Chadha, lanciata anni fa dal divertente “Sognando Beckham”. Il racconto, sontuoso e un po’ convenzionale, di quei laceranti accadimenti, che hanno riguardato anche la sua vera famiglia, si rispecchiano nelle figure di Lord e lady Mountbatten, gli ultimi, illuminati governatori britannici nel subcontinente, e di due giovani innamorati, la musulmana Aalia e l’induista Jeet, divisi proprio dalla scelta di far nascere i due stati

L’indipendenza del subcontinente indiano ottenuta nel 1947 dalla divisione tra un grande stato indù e un più piccolo Pakistan musulmano è stata una delle più grandi sconfitte politiche nella vita del Mahatma Gandhi, forse la più dolorosa; ma anche un modo tutto sommato onorevole per sua maestà britannica di uscire dalla sua più grande e secolare avventura coloniale, e una festa per centinaia di milioni di persone che comunque ottenevano alla fine l’indipendenza, sia pure in mezzo a sanguinosi conflitti fratricidi e di fronte a immani problemi socio-economici.

Con tutto questo, e scusate se è poco, si cimenta Il palazzo del vicerè di Gurinder Chadha, passato fuori concorso all’ultima Berlinale. E anche con due bei ritratti di grandi papaveri inglesi, intelligenti e generosi, lord e lady Mountbatten (gli impeccabili Hugh Bonneville, grande attore shakespeariano e star di Downton Abbey e la bravissima Gillian Anderson, lanciata dal serial tv X-Files) e con una storia d’amore che passa proprio in mezzo allo scontro etnico e politico, tra la musulmana Aalia (le dà volto Huma Qureshi, che in realtà è indiana) e l’induista Jeet (è l’americano Manish Daval, originario però del subcontinente): entrambi lavorano al palazzo di governo inglese a Dehli e lì si innamorano, fra mille difficoltà familiari, specchio di quanto il paese fosse diviso e di quanto ancor più lo sarà dopo la partition. Che come tutte le divisioni decise a tavolino, in questo caso sulla base di una scelta politica che all’origine si deve a Winston Churchill, distruggerà milioni di famiglie, e non solo quelle che vivono sul confine dei due nuovi stati, nel Bangala e nel Punjab.

Il film si muove così, quasi con un racconto in parallelo, sul doppio registro delle vicende di queste due coppie, la prima chiamata dopo le gloriose imprese nella Seconda Guerra Mondiale a un cimento altrettanto impegnativo, traghettare centinaia di milioni di persone da 300 anni di dominio coloniale verso una complessa autonomia – in qualche modo rappresenta un passato che deve chiudersi – la seconda che al contrario dovrebbe guardare al futuro, perché la loro unione sentimentale (alla fine trionfante, nonostante tutto) dovrebbe anche racchiudere il seme della pacificazione e dell’unità inter-confessionale che invece saranno in gran parte sepolte e sconfessate dal verdetto della Storia. Al cui tavolo siedono Lord Mountbatten e i suoi due grandi interlocutori-negoziatori, acerrimi nemici che riusciranno a rinunciare ciascuno a qualcosa per far progredire i loro progetti, l’indiano Jawaharlal Nehru e il pakistano Mohammad Ali Jinnah, ma non il Mahatma Gandhi, che aveva sognato fino alla fine una soluzione diversa, una grande e indivisa nazione, restando inascoltato.

La storia è scritta dai vincitori”, annota subito la 57enne regista e produttrice inglese di origine keniota Gurinder Chadha, lanciata nel 2002 dal divertente Sognando Beckham e poi autrice di Matrimoni e pregiudizi, un mix di Jane Austen e del musical bolliwoodianoLa mia vita è un disastro e It’s a wonderful afterlife, tutti film di successo al botteghino non solo inglese. Il suo dramma storico, realizzato a 70 anni dalla partition di cui la sua stessa famiglia è stata vittima, sceglie un modello e un linguaggio narrativo molto popolari, puntando alla massima comprensione e diffusione, tanto che per la distribuzione in India Chadha ha realizzato una doppia versione in inglese e in lingua indù, quest’ultima destinata ai centri più piccoli del paese. Prevale così nel film una spettacolarità colorata, scenografica, quasi in technicolor, mentre la sceneggiatura (basata su Freedom at Midnight di Larry Collins e Dominique Lapierre e The Shadow Of The Great-Game – The Untold Story Of Partition di Narendra Singh Sarila) e la regia, in cui abbondano campi totali e medi, con i soggetti sempre ben visibili al centro delle inquadrature, sfiorano la convenzionalità. Le rare irruzioni in una realtà, anche visiva, più sporca, sono affidate al materiale d’archivio d’epoca della Movietone.

Il palazzo del vicerè

Per ambientazioni, costumi e fotografia, Il palazzo del vicerè si inserisce così a suo modo nel filone dei kolossal in costume, de Gandhi di Richard Attenborough a Passaggio in India di David Lean. “Lean è sempre stato uno dei miei cineasti preferiti”, ha confessato Chadha, “adoro le grandi produzioni inglesi, che sono dipinti epici di un capitolo storico e ci aiutano a definire la nostra identità nazionale”. Ma il suo film adotta comunque un punto di vista diverso, certamente più emotivamente coinvolto: perché è lei la prima regista anglo-asiatica a esaminare il ruolo degli inglesi in India.

Il palazzo del vicerè di Gurinder Chadha, con Hugh Bonneville, Gillian Anderson, Manish Daval, Huma Qureshi, Lily Travers

(Visited 1 times, 1 visits today)