Qui si parla di malattia, ma anche di cura. Di un popolo che si avvista nelle sale di aspetto ospedaliere e che stringe a sè la propria storia. E si ricorda un libro, autore Severino Cesari, da leggere e tenere accanto nel viaggio
Sono gialle, arancioni, blu, verdi, alcune – poche – rosse , colore chissà forse giudicato troppo frivolo per la bisogna. Colori primari, accesi e dalla finitura lucida. Qualcuna è smilza, altre hanno l’elastico di chiusura teso che fa fatica a tenere insieme il contenuto. Fanno capolino da svariate borse o contenitori: vanno molto quelle di tela, nella declinazione che va dall’intellettual -creativo – mostre, musei, artisti vari – allo spiritoso bambinesco, dalla seriosa tinta unita alle réclame di un qualche prodotto. Ma ci sono anche le borsine da computer un po’ imbottite riutilizzate allo scopo o gli zaini, mentre i più spicci vanno diretti sul sacchetto, si arriva persino alla plastica da supermercato che però, insomma, anche no.
Eccoci, siamo il popolo delle cartelline. Ve ne sarete accorti, se frequentate i luoghi della cura, le sale d’attesa di un ospedale, i corridoi dove si staziona prima di essere chiamati per le terapie e dove, a poco a poco, ci si saluta e ci si riconosce: quel signore simpatico c’era anche mercoledì scorso, a quell’altro abbiamo dovuto spiegare la procedura corretta altrimenti stava ancora lì ad attendere, molte sono le facce tristi dietro una mascherina. E poi, sempre presenti, qua e là sui sedili i lampi allegri di giallo, verde, blu delle nostre cartelline tenute strette accanto a noi.
La malattia – oltre tutto il resto, e voglio dire le implicazioni mediche, fisiche, psicologiche, relazionali che si porta dietro – è anche una storia: ha un inizio, uno svolgimento, avrà una fine, un esito, positivo o negativo, o forse sarà nostra compagna per lunghi anni. Ha un/una protagonista, noi stessi, e moltissimi comprimari, ci sono i buoni e anche i cattivi, i momenti in cui il pathos cresce e altri in cui si veleggia un filo più tranquilli. Ha cambi di scena, sorprese, imprevisti, discese ardite e risalite cantava Battisti, seppur parlando d’altro. Ha dentro un sacco di sentimenti e altrettante contraddizioni: insomma ottimo materiale narrativo. E come tutte le storie, si può decidere di raccontarla: tanta letteratura e storia dell’arte lo hanno fatto, il web e i social sono da tempo pieni di storie di pazienti, la medicina narrativa è ormai pratica terapeutica da decenni, e tutti, proprio tutti, ci siamo appassionati ai medical drama, il mio preferito è “New Amsterdam”, quattro stagioni in un grande ospedale di New York.
Ecco, le nostre cartelline colorate sono storie nascoste, un po’ segrete, e la stragrande maggioranza resterà confinata nel privato di ognuno. Ed è questo che attira sempre il mio sguardo. Perché lasciano campo libero a immaginare quanto e cosa quel piccolo spazio, quei fogli impilati hanno da raccontare: della signora con gli occhi stanchi, di quell’uomo anziano diritto come un fuso cui la figlia ricorda di togliere il cappotto, di quella bella donna che è uscita un po’ barcollante e io temevo avesse un mancamento. Come fossimo un piccolo drappello che da quel segno colorato può riconoscersi, ogni particolare lascia immaginare o ipotizzare qualcosa di noi: le orecchie cartacee un po’ consunte dicono di una vicenda che va per le lunghe, o di un riciclo e, forse, prima del giorno in cui la diagnosi è arrivata, la cartellina ospitava le bollette o le rate condominiali.
Anche il modo in cui ciascuno ha archiviato la propria vicenda sanitaria dice qualcosa del rapporto che abbiamo creato con la malattia: ci sforziamo di essere ordinati, tutte le tappe testimoniate da certificati, referti, analisi e quant’altro, una dietro l’altra perché così ci sembra di poter controllare quello che, poco o tantissimo – io sono tra i casi più ‘fortunati’ – ci ha disordinato la vita, cambiato i pensieri, si è impadronito di tempo e di spazio delle nostre giornate. Per esempio, la mia cartellina – verde – si scompiglia sempre perché rispecchia la mia ambivalenza sull’ordine delle cose e va costantemente riordinata: ma c’è un bel foglio, un semplice A4, in cui ho riassunto cronologicamente tutte gli elementi principali che mi è valso i complimenti della dottoressa, da me incassati con una certa fierezza autoriale.
Dalle nostre cartelline, nelle attese, salteranno fuori, già lo so, brandelli di racconto, di esperienze: via via ci si conosce, ci si rivede, c’è un consiglio da scambiarsi, un’attesa da far scorrere, una solidarietà tra diversi che si stabilisce in automatico. In fondo tutti stringiamo la nostra cartellina, tutti abbiamo una storia dal denominatore comune, seppur nelle infinite declinazioni che la parola malattia può assumere. Tutti, oggi, metteremo nella nostra cartellina il foglio che ci rilasciano e che è un gradino in più sulla scala della cura.
Eccola la parola che conta: le nostre cartelline colorate parlano di malattia, di quel viaggio – in parte anche solitario e singolare – che ciascuno in quesa sala d’spetto sta facendo, ma parlano anche di cura. Di quella siringa riempita di un medicinale dal bel color violetto dalla quale mi attendo buone cose, del modo gentile della volontaria che va avanti e indietro sostenendo, smistando, rispondendo e aiutando, dello sguardo affettuoso di chi ci accompagna e preferisce esserci anche se forse non è così ‘necessario’, ma è invece prezioso. E torna in mente Severino Cesari che ha scritto uno dei libri più belli sia capitato di leggere sull’esperienza di malattia, quella che lo ha condotto alla morte e di cui ha fatto, nello scorrere di quel tempo speciale, un diario condiviso, lieve, profondo, pieno di luce e in cui la parola che apre mondi è proprio cura. Mi piacerebbe consigliarlo al popolo delle cartelline colorate: sono sicura che ciascuno ritroverebbe qualcosa di sé, del proprio viaggio, della propria speranza.
Il libro consigliato: Severino Cesari, Con molta cura. La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero. Un diario 2015-2017, Einaudi
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