“The Chairman Dances”, brano eseguito lunedì 20 dalla Filarmonica della Scala con la direzione di Vasily Petrenko, si riferisce proprio al grande timoniere che il compositore americano John Adams aveva già reso coprotagonista della sua opera “Nixon in China”. Ma la serata al Piermarini è stata impreziosita dalla violinista Isabelle Faust che ha cesellato con sensibilità e perfezione tecnica il concerto per violino n.1 di Bartók
La qualità di un concerto sinfonico si conta su tre dita: programma, direttore, solista (eventuale). L’ultimo appuntamento 2023 della Filarmonica Scala li ha centrati tutti e questo si può intendere come una promessa. Avere pronta, nella nuova palazzina di Via Verdi, una sala prove degna di questo nome (quella finora usata è una parodia: i musicisti non riescono a sentirsi l’uno con l’altro, quando si scende in Piermarini c’è spesso da rifare le dinamiche) sarà la felice condizione per mantenere la promessa. E, come risvolto, non avere scuse sul risultato finale.
Programma. Per il finale di lunedì 20, la Filarmonica si è concessa un fuori pista in cui mai si era addentrata: un pezzo di John Adams. Potrei sbagliarmi, ma Adams, americano, classe 1947, compositore tra i più eseguiti al mondo, non è mai stato toccato nemmeno dalla Scala come teatro. Solo Carlo Boccadoro, qualche mese fa, ha diretto in occasione semiprivata The Chairman Dances, il pezzo eseguito lunedì come ouverture di serata, così che il direttore, Vasily Petrenko, si è trovato un po’ di lavoro fatto.
Il “Presidente” di cui parla il titolo è Mao Tse Tung, il grande timoniere della Cina rossa, dura e pura, coprotagonista di Nixon in China, opera che nel 1987 portava in palcoscenico (solo dieci anni dopo) lo strano avvenimento del 1976: la prima visita di un presidente americano a Pechino, il tête á tête allora inimmaginabile tra i simboli viventi del comunismo e del capitalismo. Era l’inizio dell’opera di attualità, che oggi si scrive a ridosso di fatti e personaggi (Lady Diana, Raffaella Carrà) senza che nessuno arricci il naso prima di sentirla e se va bene anche dopo.
Nel cuore di Nixon in China si apriva un siparietto, su coreografia di Mark Morris, in cui la compagna di Mao disponeva lanterne rosse in giro per la sala dei ricevimenti e attirava il Presidente in una danza, presto raggiunti da Nixon e dalla Signora Pat. Il pezzo, che si avvia su moduli ripetitivi che John Adams aveva accolto nel suo linguaggio dai modelli noti (Terry Riley, Philip Glass e soprattutto Steve Reich), acquista un corpo sinfonico che esce dalla mano ben attrezzata dell’orchestratore e finisce in una nostalgia melodica al profumo di Gershwin&Broadway.
Sguardi strani in sala e commenti perplessi nell’intervallo. Ma perché? Non c’è nulla da interpretare in questa e molte altre musiche di John Adams, basta lasciarsi andare alle sue iterazioni, alla sua strumentalità estroversa, al suo “massimalismo” contagioso. Non sembra ancora superata quella censura eurocentrica che fa dire “sai, è un americano”, come fosse un incidente da cromosoma 21. Ricordo perfettamente un concerto alla Scala, di musica cosiddetta del Nostro Tempo, con un pezzo di John Cage cui nel libretto di sala veniva dato del cretino, scusandosi di averlo fatto sorbire al pubblico incolpevole.
Nei suoi quarant’anni, iniziati da e con Claudio Abbado (che i preconcetti non sapeva che fossero), la Filarmonica ha per fortuna un’altra storia: oltre ad avere dato fiducia a direttori “rischiosi” che ancora nessuno conosceva (come Gustavo Dudamel), non ha avuto paura di mettere in cartellone Herbie Hancock e Tan Dun.
John Adams è sulla linea che molte orchestre anche non americane perseguono: coltivare la musica di oggi, ma proprio di oggi, come palestra di elasticità utile per tutti i repertori.
Direttore. Un’apprezzabile sicurezza, confermata dagli applausi anche in orchestra, che sull’ultimo podio di stagione ci fosse Vasily Petrenko (russo, 1976), direttore stabile della Royal Philharmonic Orchestra, musicista solido, preciso, buon concertatore. È forse una coincidenza che Vasily condivida con il genio Kirill Petrenko, né fratello né parente, direttore dei Berliner, una sana inclinazione verso le musiche del mondo. Nel 2017, la Philharmonie ha dedicato a John Adams, per i suoi 70 anni, sette giorni di concerti con maestri eccellenti (Petrenko, Rattle, Dudamel) rivelatisi una vera e propria celebrazione (con favolosa edizione discografica).
Strano che non proprio su The Chairman Dances Petrenko abbia dato il meglio di sé (qualche eccesso “sparato” nella parte centrale ha ispessito una trama che può suonare più leggera), mentre affidabile si è rivelato nel raro Concerto per violino n.1 di Béla Bartók, fraseggiato con cura attorno al violino strepitoso di Isabelle Faust, e soprattutto nelle Danze Sinfoniche di Rachmaninov, canto del cigno di un compositore che molto “soffrì” la dimensione sinfonica e che nell’ultimo pezzo per orchestra, scritto in America nel 1943, raccolse con coerenza diverse memorie della Santa Madre Russia, lontano dalla quale visse molto e infine morì.
Solista. Quando in una serata entra Isabelle Faust, tutto ruota attorno a lei. Dietro il Concerto per violino n.1 di Bartók si cela una storia d’amore (di Béla da giovane per la diciottenne Stefi Geyer) che ha lasciato il segno nel destino di una pagina rimasta monca fin dopo la morte di Bartók e nelle pagine di un pezzo pieno di passi intimisti, riflessivi, perfino struggenti. Isabelle Faust li coglie con intelligenza e li cesella con la sensibilità di una musicista che scioglie il virtuosismo, la perfezione tecnica, l’intonazione perfetta nella naturalezza di un fraseggio mai dimostrativo. Isabelle Faust (Germania, 1972), è uno dei volti più sinceri del virtuosismo: rispetta la storia, conosce gli stili, propone rarità senza badare al “mercato”, si immerge in contesti che ieri si dicevano filologici, coltiva strumenti originali o che si avvicinano a quel che immaginiamo originale. Ha registrato sei album bachiani di riferimento, i Concerti per violino di Mozart con Il Giardino Armonico di Giovanni Antonini (da applausi) e, sempre con Antonini, un disco dedicato a Pietro Antonio Locatelli (meraviglioso, premiato con un Diapason d’Or). Il suo ultimo album, Solo di nome e di fatto (per Harmonia Mundi), è una piccola antologia per violino senza accompagnamento (Seicento e primo Settecento) che esalta quel saper toccare appena le corde facendo passare un suono preciso, definito, non evanescente. Da questo album solistico veniva il bis, una Fantasia di Nicola Matteis figlio, che con virtuosismo gentile ha messo definitivamente la Scala ai suoi piedi.
Solisti come Isabelle Faust, la Filarmonica fa bene a corteggiarli.
Foto: Andrea Veroni/©Filarmonica della Scala