Un intenso dramma di Miller del ’69 con Orsini, Popolizio (anche regista), Schilton e la Reale: la crisi americana si riflette in dollari e sentimenti
Massimo Popolizio alla sua prima regia riporta in auge un testo di Arthur Miller che non si vedeva in Italia dal 1969 e assieme alla direzione di Umberto Orsini dà vita a un atto unico pieno di risvolti socioeconomici, umani e familiari.
La scena è dominata dai vecchi mobili di una casa ereditata da Victor (Popolizio), poliziotto quasi in pensione che vive in ristrettezze economiche assieme alla moglie depressa e alcolista (Alvia Reale) e che ha deciso di far stimare da un broker locale (Orsini) il valore dell’arredamento. Il fratello Walter (Elia Schilton) invece, pur non essendo tanto dotato nello studio, è riuscito a diventare un medico ricco e di successo. L’incontro tra i due, proprio mentre la valutazione sul prezzo del lotto dei mobili sembrerebbe concluso, riapre in realtà le questioni irrisolte della memoria familiare, del rapporto tra i due con il padre malato, forse egoista e dei finanziamenti al figlio “preferito” a cui è stata concessa la possibilità di prendersi un titolo di studio onorevole. Il valore di cui si sta parlando è in bilico tra il tenore di vita che garantisce l’agiatezza sociale e quel “prezzo delle relazioni”, che ha segnato la vita di entrambi i fratelli.
Sembra uno screzio quasi biblico quello consumato ad evocare ricordi, invidie, recriminazioni morali e personali che lentamente ed inesorabilmente contrappongono senza soluzione i due personaggi, combattendo con il parere ed il volere silente di un padre ormai mancante e le illusioni che hanno celato per anni le intenzioni e l’agire reciproco. C’è un’incomprensione umana di fondo tra i due fratelli, spietata ed inesorabile, che emerge dal testo e che rende la scena, mai giocata sull’eccessiva presenza di luci o musica ma sulla forza stessa della recitazione degli attori, una nuda arena di verità infelici e di presa di posizioni di due vite che non si sono mai davvero avvicinate.
Da una parte c’è la carriera, dall’altra il riconoscimento dell’affetto paterno e materno, da un’altra lo scontro ideologico, e da un’altra ancora la situazione economica che in seguito alla crisi del ’29 dipinge un’America a metà, in ci ciascuno rappresenta una fetta e di cui è sempre il mercante più astuto a fare le veci del vittorioso. Ma il grido più lancinante che trasale dai due personaggi è proprio l’eredità dei ricordi che portano il peso dei traumi, in cui sono proprio i due fratelli a non riuscire a conciliarsi ed a venirsi incontro, ciascuno coi suoi problemi economici o psicologici ed entrambi legati ad una posizione immutabile e straziante.
Il prezzo della pace si gioca sull’umanità ed è troppo alto per essere pagato e il disarmante ritratto di ciò che significa essere fratelli, figli, padri, madri giunge come eco di un’etica familiare e sociale che per Miller non era ancora stata risolta, ma camuffata da un valore monetario che in fondo è solo la banale copertura di dinamiche umane e psicoaffettive ben più complesse e latenti. La scena di Maurizio Balò illustra, inerme ed evocativa, un “eredità pesante” e la bravura ma soprattutto la ponderazione e l’irrealismo della recitazione degli attori, molto efficace ed incisiva, stimola profondamente a riflettere su temi profondamente contemporanei.
Il prezzo di Arthur Miller al Piccolo Teatro