Il “richiamo della foresta” di Jack London torna in libreria in una nuova bellissima veste: la traduzione di Michele Mari
La storia di Buck non è una storia semplice da raccontare, perché le parole di Buck sono parole mute di bestia, di cane e di lupo, rese da un narratore esterno, poco ingombrante e poco incline a dilungarsi. La prosa che ne risulta è pulita e scorrevole, decisamente incline al telling; un veicolo perfetto per trasmettere il sentimento primitivo e potente di un animale che trova la propria natura nel selvaggio nord. Il lettore anglofono dunque non si pente della sua scelta.
Il lettore italofono, se lo desidera, può riscoprire questo grande classico della letteratura americana (The Call of the Wild, Jack London, 1° ediz. 1903, Macmillan Publishers, New York) in più di trenta edizioni italiane, anche illustrate. L’ultima, edita da Bompiani nel 2015, è una traduzione d’autore, firmata da Michele Mari, poeta, scrittore e professore di letteratura italiana all’Università Statale di Milano (Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Verderame e tanti altri).
Mari si dimostra un traduttore consapevole, incline a evitare una resa ingenua fin dal titolo del testo, che in italiano crea qualche problema: de facto una traduzione letterale di Wild non esiste, così come in francese, in tedesco, in spagnolo, in portoghese e in russo. Dunque? Ci sono più soluzioni: è possibile rendere Wild come aggettivo (L’appel sauvage), sostituirlo con i concetti di Wilderness e Natura (Ruf der Wildnis, O apelo da natureza, Zov prirody) o come nel caso dell’italiano e dello spagnolo sovrapporre al generico significato di “ciò che è selvaggio” quello di foresta (El llamado de la selva, Il richiamo della foresta). Il traduttore è così arbitro di un match tutto giocato tra il prestigio della vulgata e il prestigio della filologia. Mari parteggia per quest’ultima: sceglie di inserirsi in una tradizione inaugurata con la prima trasposizione di Gian Dàuli (1924, Modernissima), sia perché concretamente il concetto di Wild è più volte accostato a quello di foresta, sia per un certo attaccamento del lettore a un titolo ben noto fin dall’adolescenza.
Sebbene percorra una via filologica, il traduttore non rinuncia a porre un tocco personale, elegante, coltissimo ma discreto. Dunque i “furry coats” dei cani diventano “manti vellosi”; un composto molto inglese, molto sintetico e pulito come “tide-water dog” si trasforma in “cani avvezzi all’acqua”; vengono introdotti avverbi o congiunzioni insoliti (eminentemente, nondimeno, sicché). E poi all’improvviso si è catturati da verbi come tumultuare. Assolutamente magnifico.
È possibile che queste pennellate di lingua “colta” inficino il piacere di lettura di chi, sulle soglie dell’adolescenza, desidera leggere solamente un bel romanzo per ragazzi? La questione non si pone: le licenze di Mari sono tocchi d’artista, piccoli dettagli che non danneggiano la scorrevolezza della prosa. Anzi, è possibile che il lettore giovane, poco esperto, apprezzi e apprenda. È probabile che romanzi del genere, traduzioni del genere, costituiscano un trampolino di lancio verso letture più impegnative. Il testo è di fatto ricco di spunti linguistici e contenutistici, sottolineati anche dalle scelte del traduttore: non si opta per una domestication, una resa più italiana del testo, ma per una foreignization, una trasposizione più vicina all’originale a livello linguistico e a livello culturale. Dunque si mantiene la ripetizione, che in inglese non crea alcun fastidio: “Smanioso di lacerare e distruggere, non dimenticava mai che anche il suo avversario era smanioso di lacerare e distruggere”. Si rispetta talvolta l’ordine sintattico originale, si conservano tecnicismi quali Wheeler dog, cane di ruota, e modi di dire, come Mush, esclamazione del Musher, conducente di cani da slitta (tecnicamente “mossiere”). Il risultato della traduzione è un testo ricco, fedele ma unico che risulta estremamente gradito sia al lettore inesperto, sia al lettore forte, sia al lettore linguista. Sì sa, gli autori sono sempre i traduttori migliori.