Tra le iniziative previste per Matera capitale europea della cultura, una mostra avrebbe dovuto raccontare il Rinascimento nel Sud Italia. Poteva essere l’occasione per fare i conti con la “Questione meridionale” della Storia dell’arte; ma è un’occasione mancata.
Matera capitale europea della cultura 2019 ha portato, tra le varie manifestazioni, anche a una mostra dal titolo Rinascimento visto da Sud. Matera, l’Italia meridionale e il Mediterraneo tra ’400 e ’500. Il tema delle «rotte mediterranee della cultura» in epoca rinascimentale era un cavallo di battaglia di Ferdinando Bologna, a cui il catalogo è dedicato, scomparso, ultranovantenne, il 3 aprile di quest’anno. Non è la prima volta che si tenta un’esposizione sul Rinascimento mediterraneo: quella più vicina a noi risale a poco meno di vent’anni fa, curata da Mauro Natale alla Thyssen di Madrid e a Valencia. Era una mostra confusa che lasciava la sensazione di trovarsi come su una spiaggia con tanti detriti depositati, sconnessi tra loro.
Ma torniamo a Matera, a Palazzo Lanfranchi. La prima parte è una sorta di introduzione, un po’ da sussidiario, troppo generica per far capire la complessità dell’argomento che vuole trattare dagli Angioini a Carlo V, passando per gli Aragonesi. Tra i vari ritratti di Alfonso d’Aragona ci si ficcano subito un po’ di vedute di città mediterranee (Venezia, Costantinopoli, Candia), senza un apparato didattico che permetta di seguire un itinerario, anche geograficamente, complesso. Non ci sono audioguide o didascalie ragionate che facciano capire perché è presente un’opera piuttosto che un’altra, qui, come in tutto il resto della mostra.
S’inizia cercando di affrontare la lunga stagione del Gotico internazionale. Gli Angioini e gli Aragonesi sarebbero portatori dell’«arte nuova», quella nata in Fiandra, diffusasi in seguito in Francia, Spagna e Germania. Per spiegare questo complesso fenomeno non bastano le carte miniate del lombardo Leonardo da Besozzo. Confonde vedere un frammento di un retablo del catalano Martorell non lontano da una valva di trittico che il portoghese Álvaro Pirez ha realizzato per Nola: le presenze straniere non spiegano del tutto un capolavoro di questa prima parte, il Crocifisso dalla chiesa del Gesù di Nola attribuito al Maestro di Ladislao di Durazzo, dalla grande carica espressionista. Ma come starà insieme alla Croce d’argento di Tricarico, d’un gotico classicheggiante decisamente più centro-italiano, magari nel solco delle esperienze ghibertiane di Nicola da Guardiagrele?
C’è poi il magnifico Crocifisso di Capodimonte, in tela pesta, datato al 1420-1430: perché accostarlo a uno dei tanti e seriali alabastri inglesi, in questo caso proveniente da Venafro, di tutt’altra tempra stilistica e di ben diversa cronologia?
Nella terza sezione – Un altro Rinascimento. Colantonio, Antonello e l’arte dei ‘ponentini’ – si sente davvero la mancanza dei prestiti negati. O perlomeno delle opere schedate ma non presenti (in catalogo sono, quasi tutte, indicate da un asterisco). La vicenda di re Renato, l’ultimo angioino, si spalma su quella di Alfonso d’Aragona: e il grande assente è Barthélemy d’Eyck, per non dire dei fogli della Cronaca Cockerell che Longhi credeva di Fouquet (nemmeno prevista), segno della congiuntura tra il mondo francese e la luce mediterranea. S’introduce invece il fronte sardo con l’attività di Figuera e Tomàs, che non è certo dello stesso livello. Dopo i pochi Antonello sottratti alla lunare mostra milanese di Palazzo Reale, si arriva allo stupendo ostensorio di Pietro Vannini da Ascoli, affiancato, chissà perché, a una pagina del Libro d’ore di Alfonso il Magnanimo con San Giorgio e il drago, che dovrebbe evocare un Van Eyck perduto, come pensava Bologna. Per quanto possa far piacere vedere il luminoso San Bernardino scovato da Zeri a Roma e attribuito da Bologna a Giovanni di Bartolomeo dell’Aquila, bisogna constatare che non fa sistema con la colossale Testa di cavallo di Donatello, brillantemente restituita a quest’ultimo da Francesco Caglioti. Ma soprattutto perché non dire chiaramente nel pannello, l’unico strumento di sala che permetta la difficile ginnastica mentale tra gli oggetti, che la protome equina è fatta per l’arco trionfale di Alfonso il Magnanimo, nel Castel Nuovo a Napoli? Succede così anche per la Sant’Eufemia di Mantegna: perché non dire nel pannello che è stata commissionata da uno studente di Montepeloso che va a Padova, Roberto de Mabilia, ma fare solo una genericissima allusione ai «maggiorenti locali che frequentavano la città lagunare per i commerci o Padova per studiarvi all’Università»? Il visitatore si trova a dovere apprezzare le opere per sé stesse. Il monumentale frammento con un’iscrizione in greco del Museo Archeologico di Napoli (riprodotto in bianco e nero in catalogo, come altro) è privo di didascalia in mostra e dovrebbe illustrare la cultura classica al Sud, ma, per esempio, nulla indica che al centro del quadro, dal fascino spigoloso, di Francesco Pagano (attribuito ancora da Bologna) della Barberini ci siano precisi prelievi dai rilievi traianei dell’Arco di Costantino.
Sarebbero piaciuti sempre a Bologna i suoi Cristoforo Scacco accostati (ma come fanno ad avere la stessa data?) e il capolavoro di Lazzaro Bastiani arrivato da Monopoli (dove per vederlo la prima volta ho quasi sfondato la porta del museo e ora è qui, nonostante lo stato di conservazione). Da queste parti non ci sarebbe stata male anche un’opera del messinese Alfonso Franco.
In questa sezione si trovano ancora opere sarde (non più presenti dopo, quando sarebbero più pertinenti, dal Maestro di Ozieri a Michele Cavaro) che ribadiscono come serve fare dei distinguo sulle influenze mediterranee. Qui è un mare unico e basta. Le sculture di Laurana e dei Gagini costeggiano il percorso come presenze dell’obbligo, e tra quelli che vanno e ritornano manca, per esempio, Tuccio d’Andria.
La parte del Cinquecento funziona meglio, anche se è preceduta dalla solita pappardella da sussidiario. Manca – a prescindere dalla Madonna del pesce o dallo Spasimo di Sicilia di Raffaello, due pale destinate all’Italia meridionale – qualcosa di Marco Cardisco, che poteva fare da cartina al tornasole per l’influenza raffaellesca. Perché far venire il – per carità bellissimo – Cesare da Sesto di Lisbona, con i cigni sullo sfondo, che ha una provenienza mantovana, se non addirittura gonzaghesca? Non era più pertinente quello di San Francisco, che stava a Messina, con l’angelo che tira la tenda per proteggere la Madonna dal sole del Sud? Si vedono il Lotto di Giovinazzo e il Pordenone di Gallipoli ormai sdoganati (anche lì, anni fa, quasi si dovevano buttare giù i battenti delle chiese per ammirarli). E tante sculture tra cui spicca il San Matteo e l’angelo di Ordóñez. Il gran finale è di un pittore che rende in chiave stregonesca la lezione di Raffaello e che viene dal Nord, da Caravaggio: Polidoro, di cui si ammirano ancora una volta le vertiginose tavole scoperte nel 1980 da De Castris.
Il catalogo è enorme, stampato malamente con colori virati (su tutti il tondo di Penni, da Cava dei Tirreni). Si ha la sensazione di una manifestazione messa insieme in grande fretta, con quel che arrivava. L’argomento è difficilissimo e renderlo per il grande pubblico ancora di più. Forse ci volevano meno opere ma che permettessero confronti serrati. E Matera, data la collocazione geografica e il suo atavico isolamento, non è forse la città più adatta da cui guardare tutto il Sud, e non ci sono cappelle della Sanità che tengano. Del resto le utopie meridionaliste di Giovanni Previtali sono morte con lui e il Mediterraneo si è ridotto a un tema di ammissione ai dottorati (come centro-periferia, tradizione-innovazione, i valichi…) o a un requisito per le richieste dei finanziamenti d’ogni ordine e grado. Ma se per vedere l’incantato complesso della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci ci si deve sorbire una mostra-mercato delle sculture di Dalí – aperta da inizio dicembre e con tanto di biglietto – forse, nella città capitale della cultura europea, non ci si deve lamentare più di tanto. Non ci resta che sperare in Milo Rau, sulla via di Pasolini.
Immagine di copertina: Lazzaro Bastiani, San Girolamo nello studio, Monopoli, Museo Diocesano (particolare)