Il ritorno dei Blur, intenso e struggente

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“The Ballad of Darren”: dieci canzoni dense, profonde, talvolta dai contenuti arcani, sempre ricche di suggestioni, frutto del talento poetico di Damon Albarn. Nostalgia canaglia? Forse ma anche l’amicizia, i percorsi di vita comuni, il rimpianto e, naturalmente, l’amore

La band di Colchester approda dopo trent’anni di carriera (si è formata nel 1988) a questo ulteriore step di maturità, di esperienze vissute insieme ma anche di crescita musicale e compositiva: The Ballad of Darren.

Negli ultimi due decenni, i Blur sono stati distanti, ma presenti. Ciascun membro del gruppo si è tenuto occupato con altro: Damon Albarn con i Gorillaz e molti progetti collaterali; Graham Coxon con una carriera da solista; Dave Rowntree con la politica; Alex James con la produzione di formaggi e con un documentario per il quale è stato redarguito dal presidente della Colombia che riteneva le sue “uscite” sulla cocaina banali e istrioniche. Non si sono mai separati ufficialmente, e ogni volta che riappaiono è come se una relazione un po’ sopita ritrovasse la luce. Lo dimostrano i due album in 20 anni: Think Tank del 2003 e The Magic Whip del 2015.

Quando una band di alto lignaggio realizza un nuovo Cd, il più delle volte tende a seguire uno schema prestabilito: rievocare gloriose melodie del passato per sollecitare nostalgiche emozioni tra gli ascoltatori. The Ballad of Darren è qualcos’altro.

Certo potresti definire le canzoni dell’album nostalgiche. In realtà, racchiudono qualcosa di più profondo. I testi di Albarn sono pieni di rimpianti, di riflessioni su amicizie finite: « I fili legati a tutti noi/ Alla fine non c’è niente solo polvere» (Russian Strings).

Di tanto in tanto offrono grani di saggezza conquistata a fatica: «Ah, non puoi giocare per tutti i gusti/ La polveriera della causa comune/ Tutti noi portiamo con noi un trauma», ma si chiedono anche ad alta voce se quella saggezza sia possibile applicarla alla propria vita: «Non ci tireremo indietro/ Stiamo crescendo con il dolore», canta coraggiosamente Albarn in The Everglades (For Leonard).

Parte di ciò che il cantautore ha da dire riguarda la storia dei Blur: «Abbiamo viaggiato in tutto il mondo insieme», cantano Albarn e Coxon nella canzona di apertura, The Ballad, tra le canzoni meglio riuscite del’album per la sua organicità. 

Barbaric risulta uno dei brani più freschi: «E mi piacerebbe se avessi tempo/ Per parlarti/ Di cosa mi ha fatto questa rottura», e ritmati del disco che si alterna bene con gli altri della scaletta .

Il singolo principale, molto riuscito, The Narcissist, è in effetti un alibi di quattro minuti per giustificare l’ambizione che ha alimentato l’ascesa della band.

L’album suggerisce che i Blur abbiano ancora qualcosa di pertinente da dire, che non si accontentino di riposare sugli allori, il che rende il loro futuro intrigante. La ballata di Darren non offre una risposta ma pone domande. 

L’ultima traccia, The Heights, suona come un gran finale, ma il climax atteso non arriva mai. Invece, la canzone viene inaspettatamente sopraffatta dal frastuono della chitarra di Coxon, che si stempera in un rumore bianco, che improvvisamente si interrompe. Sembra un finale strabiliante, ma che ti lascia il dubbio di cosa potrebbe succedere dopo.

La prima parte  del disco si chiude idealmente con la domanda retorica: perché tutto svanisce? O meglio, con un’affermazione: verranno giorni in cui non dovremo chiederci perché tutto svanisce. Nella seconda s’intravede un percorso verso una sorta di accettazione di sé: «Ho trovato il mio ego», con la promessa di non fare più cazzate, di non perdersi più: «Ma questa volta non cadrò» (The Narcissist), di mettersi alle spalle la depressione: «Potrebbe svanire come un fronte meteorologico all’alba»  (Goodbye Albert).

Il produttore James Ford (Arctic Monkeys) ha tirato fuori il meglio dal gruppo, contribuendo a trasformare nel giro di un paio di mesi i demo registrati dal cantante durante il tour dei Gorillaz in un’opera collettiva.

Un disco dalla doppia faccia quindi con attimi di smarrimento, di nostalgia, anche quasi di accettazione del dolore (dovuto alla scomparsa di amici di Damon Albarn e di membri della band) e con riferimenti al tempo passato, alle lezione apprese e quelle da apprendere, alla saggezza da condividere e da applicare a se stessi. Tutto sembra risolversi con un punto di domanda in un’accettazione del tutto. Anzi nell’accettazione di essere parte del tutto. 

Si consiglia di ascoltare l’album seguendo la scaletta in totale relax.

Foto di Reuben Bastienne Lewis

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