“Il ritratto negato” è l’ultimo film girato dal maestro polacco di “Cenere e diamanti”, “L’uomo di marmo” e “Katyn”, che ebbe il modo di presentarlo nel settembre 2016, un mese di prima di morire. Si racconta la battaglia culturale, politica e morale di Władysław Strzemiński (lo interpreta l’ottimo Boguslaw Linda), pittore, scultore e teorico dell’avanguardia novecentesca: gli ottusi seguaci del realismo socialista ne distrussero vita e carriera in ossequio ai diktat del regime filostaliniano
Ha fatto giusto in tempo, il grande Andrzej Wajda, a presentare al Festival di Gdynia, a fine settembre 2016, il suo ultimo film Il ritratto negato. Il maestro polacco di L’uomo di marmo e Katyn, 65 anni di splendida carriera da cineasta che va dalla palma d’Argento 1957 a Cannes per I dannati di Varsavia a quella d’Oro nel 1981 per L’uomo di ferro, il film su Walesa e Solidarnosc, dal Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 1998 all’Oscar onorario ricevuto nel 2000 “per cinque decenni di straordinario lavoro alla regia” all’Orso d’Oro a Berlino nel 2006 (“una vita dedita all’arte cinematografica”), sarebbe morto poche settimane dopo, novantenne ancora pieno di progetti e di ansia e voglia di parlare di cultura, politica e libertà. E di fare altro cinema.
Il ritratto negato è la storia di un grande della pittura e della scultura polacca del Novecento, Władysław Strzemiński, amico e studente di Malevič, Chagall e Rodčenko, nato a Minsk (all’ora nell’impero russo zarista, oggi capitale della Bielorussia) ma da sempre legato alla patria di Wajda di cui è stato una gloria, fondando a Lodz nel 1934 il secondo Museo d’Arte Moderna al mondo. Finché gli strali ciechi e crudeli dello stalinismo applicato all’arte lo ridussero al silenzio nei primi anni 50: le sue opere furono bandite dai musei perché astratte, pessima caratteristica nell’era del realismo socialista di stato, perse la cattedra all’accademia di Lodz e la sua vita finì nella miseria. Eppure gli studenti ancora lo seguivano, Wajda lo racconta con entusiasmo, quasi lo veneravano nelle sue lezioni a casa per l’acutezza delle analisi, in linea col progresso creativo europeo, e il rigore morale. Un teorico e un artista, nonostante avesse perso nella Prima Guerra Mondiale un braccio e una gamba e un occhio fosse rimasto leso.
Sposatosi con l’altrettanto battagliera e creativa Katarzyna Kobro, compagna di tante scoperte e battaglie artistiche e poi madre della figlia che vediamo anche nel film, rifiutò sempre, nonostante l’adesione iniziale al marxismo e al comunismo, qualunque forma di stile propagandistico, pronunciandosi per un’arte funzionale alla spiegazione della realtà e alla sua organizzazione, anche in termini di spazi, abitazioni, città. Con legno, metallo, vetro, plastica, inaugurò insieme alla Kobro in Polonia la pratica della scultura installativa che univa la forma, lo spazio e lo spettatore. Tutto ciò si coniugava nella teoria dell’unismo – spiegata nel suo libro Teoria della visione – figlia del cubismo e del suprematismo insieme, che stabiliva un legame organico fra forma, colore e composizione nel segno dell’espressione formale contemporanea.
Insomma, nulla di più lontano dal muscoloso e vincente eroe socialista dell’iconografia ufficiale nell’era staliniana. La convinzione che non vi fosse altra strada se non quella dell’arte astratta, lo portò subito in una rotta di collisione col ministro della cultura e l’apparato dei dirigenti ortodossi del regime polacco. Agli occhi di chi vedeva solo il collegamento tra arte e bisogni immediati delle masse, i pittori come lui erano sospetti di formalismo e “americanismo”, il che poteva (e poté) rovinarne le carriera e la vita. Strzemiński, disoccupato, quasi infermo, dopo la morte della moglie ancora amata ma da cui era separato, finì come lei in un letto d’ospedale da cui non uscì vivo.
Il biopic che gli dedica Wajda, scritto con un po’ troppi didascalismi da Andrzej Mularczyk, è il racconto di un’esistenza devota all’arte, un inno alla difesa della libertà creativa, costi quel che costi. Un’idea di militanza culturale che il regista certamente ha condiviso, di certo con qualche rischio in meno, e che qui ha scelto di raccontare più con la prosa che con la poesia, lui che negli anni ’50-’60 aveva iniziato con film di straordinaria potenza poetica (Cenere e diamanti, Il bosco di betulle). E stride un po’ il fatto che per tratteggiare i caratteri psicologici e ambientali di un campione dell’avanguardia il grande regista abbia scelto gli stilemi più classici, a tratti anche un po’ convenzionali, del dramma storico. E per combattere il rigore manicheo della propaganda comunista di allora abbia usato una contrapposizione altrettanto secca e senza sfumature o incertezze tra nobili eroi dell’arte e ottusi paladini dell’ideologia,
Certo il film fa leva sulla grande professionalità interpretativa di Boguslaw Linda, attore e regista di teatro e cinema scelto da Krzysztof Kieślowski per Decalogo 7 e dallo stesso Wajda per L’uomo di ferro e Danton, nonché fondatore della Scuola del Cinema di Varsavia. E su quella di un direttore della fotografia come Paweł Edelman (Oscar, Cesar e Bafta 2002 per Il pianista) che qui offre uno sfondo nitido e illuminato ad arte, in linea con il soggetto. Come efficaci sono le musiche di Andrzej Panufnik, compositore, pianista, direttore d’orchestra, che a sua volta fuggi, in anni di ortodossia, dal realismo sonoro.
Il ritratto negato, di Andrzej Wajda, con Boguslaw Linda, Zofia Wichlacz, Bronisława Zamachowska, Krzysztof Pieczynski, Maria Semotiuk, Szymon Bobrowski, Paulina Galazka