“Un lavoro da donne. Saggi sulla musica” racconta la conquista di uno spazio di autonomia nel mondo della musica non solo attraverso il talento ma anche tramite il riconoscimento di una tecnica, appresa e tramandata, magari senza saperlo, e senza definirsi profetesse. Testimonianze di scrittrici, musiciste, artiste raccolte dalla scrittrice Sinéad Gleeson e dalla fondatrice dei Sonic Youth, Kim Gordon
In Un lavoro da donne: saggi sulla musica (Sur edizioni) sedici tra scrittrici, musiciste, artiste raccontano il rapporto che hanno sviluppato con il mondo della musica. A raccogliere i testi con le loro testimonianze Sinéad Gleeson, ex giornalista di musica, e Kim Gordon, scrittrice, produttrice, artista visiva e fondatrice dei Sonic Youth, gruppo di rock alternativo statunitense. Qui sotto la prefazione al libro di Claudia Durastanti .
Ho più o meno dieci anni, l’ora per andare a dormire è passata da un pezzo, e sono seduta su un divano a guardare un film con Val Kilmer che interpreta il cantante di una band ancora sconosciuta per me, i Doors. Non ci sono adulti a proteggermi nei paraggi, quindi posso sprofondare nel film di Oliver Stone fatto letteralmente da luci rosse che pulsano nell’oscurità, il motivo per cui lo considero il primo film erotico della mia vita.
Sullo schermo c’è un ragazzo che si chiama Jim e ha una passione per le lucertole e gli sciamani, indossa pantaloni di pelle e rimorchia un sacco di ragazze. È un musicista, ma è anche un veggente, un artista, un chiacchierone, un lunatico, un contaballe. Nonostante la sua avvenenza e la sua fisicità esasperata, non è lui a interessarmi, ma le ragazze che lo circondano: Pam la testarossa, Nico che glielo prende in bocca in ascensore, la sacerdotessa Patricia Kennealy che lo rincorre nuda per casa. Di queste donne, a dieci anni, mi affascina il modo in cui si vestono, come fumano, e quanto sono capaci di eseguire degli incantamenti, vale a dire quanto sono in grado di far rimbecillire chiunque abbiano davanti. Non riconosco in loro nessuna funzione che non sia quella del sacrificio: per qualcosa di bello, per un maschio, e per la musica.
Partire dal film ormai vetusto di Oliver Stone per introdurre Un lavoro da donne può sembrare una scelta bizzarra. Sono abbastanza certa che quando la magnifica girl in a band Kim Gordon e la scrittrice Sinéad Gleeson hanno deciso di curare un’antologia dedicata a cantanti, giornaliste, compositrici, donne che hanno stabilito un rapporto intimo e radicale con la musica, non stavano pensando a un’icona trapassata del rock, ma a figure molto più concrete e «vive» anche quando sono morte da un pezzo.
Stavano pensando a delle artiste e a delle lavoratrici: come evidenzia già il titolo, l’antologia parla della conquista di uno spazio di autonomia e di riconoscibilità nel mondo della musica non solo attraverso il proprio talento o la propria sregolatezza romantica, ma anche tramite il riconoscimento di una pratica, di una tecnica: qualcosa che si è imparato e trasmesso nel tempo, magari senza saperlo, e senza definirsi profetesse.
Ma forse in un libro in cui in cui sedici scrittrici, musiciste e artiste si mettono al confronto con le proprie ossessioni musicali, c’è spazio anche per questa stranezza e folgorazione infantile. Le donne che mi avevano colpito sullo schermo a dieci anni erano destinate a cambiare significato: crescendo, ho scoperto che Nico non era affatto un’amazzone stratosferica da scartare e consumare in una sera, ma una delle musiciste più integre e potenti della sua generazione. E Patricia Kennealy non era solo una che tirava fuori i coltelli per fare i patti di sangue cosmici, ma una delle prime critiche musicali a essere prese sul serio nella California di fine anni Sessanta.
Donne che lavoravano. Donne con dei dischi e libri all’attivo, e che potevano andare fuori di sé per motivi meno banali di quel che sospettavo. Così direbbe Jenn Pelly in uno dei saggi dell’antologia dedicato a Lucinda Williams e intitolato «I frutti del lavoro». Leggendolo, vi imbatterete in una frase che conservo caramente da quando l’ho letta: «Ci sono altre forze in grado di spezzare il cuore oltre all’amore: anche il lavoro può avere quell’effetto».
Da bambina questo non riuscivo ancora a immaginarlo, probabilmente perché mi sembrava poco romantico – tuttora questo ardore lavorista può suscitarmi dei conflitti soprattutto se connesso a un’idea di produttività sfrenata, e rivendico strenuamente l’idea che si possa comunicare qualcosa di «pieno» anche attraverso forme più diluite di espressione –, ma se sono riuscita a riscattare Nico dal suo perenne martirio sentimentale è perché ho imparato ad ascoltarla, e a farmi guidare da altre musiciste venute dopo di lei, che sono state sue fan e hanno messo la sua creatività in primo piano. C’erano altre cose in grado di spezzare il cuore: in qualche modo le avremmo scoperte tutte.
«La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente», scriveva Don DeLillo nell’incipit di Great Jones Street, il romanzo in cui attraverso la figura di una rockstar ritirata, Bucky Wunderlick, si faceva beffe di un certo esoterismo da cantautore americano (vedi alla voce Bob Dylan). Nel libro Wunderlick ha pure una fidanzata fichissima e misteriosa come si deve, Opel, e chi è che non vorrebbe chiamarsi Opel e perdersi nel deserto con un soggetto tormentato e bramato da tutti? È il nome perfetto per uno scenario del genere.
Ogni volta che ripenso a Great Jones Street, però, è come se avvenisse un’interferenza tra i miei archivi personali, quelli in cui ho custodito avidamente le pagine di certi romanzi, i dischi che mi hanno formata, nonché una quantità discreta di informazioni superflue che a mio avviso vanno a delineare l’atmosfera di una persona: come dimostra Un lavoro da donne, è dalla capacità di trattenere l’infinitesimale e di attaccarsi alla sublime irrilevanza di una traiettoria artistica che si creano certe personalità. È l’unica cosa su cui non sono d’accordo con Anne Enright, che nel saggio di apertura dell’antologia, in cui parla della sua passione per Laurie Anderson, scrive: «La musica mi annulla. Non mi dice chi sono»: è un pensiero a suo modo stupefacente, per chi resta convinto che la musica dica tutto.
Per farla breve, il personaggio di Opel mi fa pensare subito agli Opal, la band neo-psichedelica con il compianto David Roback alla chitarra e Kendra Smith al basso. Durante il tour promozionale per l’uscita dell’album Happy Nightmare Baby, Kendra Smith mollò e venne sostituita da Hope Sandoval, la venerata cantante di quelli che sarebbero diventati i Mazzy Star. Basta un’assonanza per scivolare in maniera quasi mistica in certe galassie parallele del rock americano, ma a differenza dell’immaginario Bucky Wunderlick, Kendra Smith si è ritirata in un ranch della California e non si è beccata neanche un romanzo ed è un peccato, perché la sua è una bella storia.
Vicende «minori» come quella di Kendra Smith costellano la storia della musica e molte storie scelte e raccontate in Un lavoro da donne. Leggendo il libro sono stata piacevolmente costretta a ripensare a quante incrostazioni si creano nella storia del rock, e a quanto può essere imbarazzante la parola «celebrità», o «fama». (Un’esperienza autenticamente ridicola, direbbe Enright nelle pagine a seguire, e qui le do ragione.) Qualcosa che spetta di diritto al protagonista di Great Jones Street, per competere con gli statisti o con Elvis Presley – non a caso in Rumore bianco DeLillo fa apparire l’Elvissologia, una branca degli studi dedicata al Re di Tupelo –, e non ad artiste che si possano stimare per davvero, come se la fama fosse un’afflizione patologica destinata alle ex eroine della Disney o del Mickey Mouse Club tipo Miley Cyrus o Britney Spears, mica a PJ Harvey.
Eppure è stata proprio PJ Harvey a farmi cambiare idea sul senso della celebrità, quando passò dall’estetica riottosa e chiaroscurale di Dry al look glam e pauroso per l’uscita di To Bring You My Love: stando alla leggendaria definizione fornita da lei stessa, Polly Jean Harvey era pronta a diventare una Joan Crawford sotto acidi con le ciglia lunghissime, le labbra voluttuose e larghe, i vestiti aderenti anni Quaranta, bella come poteva esserlo solo nei suoi incubi. Esplosiva. Famosa. Pronta per l’adorazione.
A metà anni Novanta, PJ Harvey è riuscita a dimostrare che era possibile essere indipendente e monumentale, seria e luccicosissima: è stato così che ho recuperato una parola che sentivo lontana dalla mia pratica femminista, e sono tornata a essere una fan.
È uno dei piaceri più sinceri che ho provato leggendo Un lavoro da donne: rendermi conto che molti pezzi sono scritti da vere e proprie fan, da autrici invasate, appassionate, donne arrese alla forza di un’altra donna, su cui posano il loro implacabile sguardo. È bellissimo, soprattutto quando si va avanti e si diventa meno visibili, o ci si opacizza nel mondo perché viene meno l’odore del proprio teen spirit (una cosa che Kim Gordon ha raccontato bene nella sua autobiografia), essere guardate da altre donne in questo modo, sentirsi addosso un’attenzione che non ha altro scopo se non quello di confermare un’esistenza, di far capire all’altra persona che c’è ancora, che importa, e viene ricordata.
La realtà è che potevo cantare tutti i pezzi che volevo delle Sleater-Kinney (qui ricordate da Megan Jasper, un’ex centralinista della Sub Pop diventata poi manager, in un pezzo dolce e confortante sui «perdenti»), comprarmi ogni singolo libro sulle riot grrrl e predicare un femminismo senza gerarchie, ma nella mia testa c’erano voci come quella di PJ Harvey e di Nick Cave che volevano fare una sola cosa: mettermi in ginocchio.
È il famoso knee drop che Cave mette in scena sul palco, quando pare che stia per spezzarsi la schiena a furia di crollare, proprio come facevano Patti Smith e Iggy Pop: a volte mi chiedo come possiamo dirci veramente innamorati di qualcuno, se non siamo capaci di questo gesto, di una resa. È una cosa che mi inquieta e a cui ripenso spesso perché fa parte del modo in cui ascolto la musica: la bellezza dell’arrendersi, il riconoscimento di un potere superiore e persino severo.
Se uno scrittore americano avesse inventato un dipartimento universitario o una disciplina di nicchia dedicata a PJ Harvey o alle artiste che l’hanno anticipata e seguita io mi ci sarei iscritta, confidando di prendere buoni voti: dei miei vent’anni non c’è niente che mi manchi più che quel tipo di memoria famelica e inutile, in cui sapevo chi aveva suonato dove, e quale canzone aveva dedicato a chi, e perché era stato percepito come un successo, e perché invece era stato un fallimento.
È così raro tornare a quel tipo di attenzione e di amore. È per questo che uso l’immagine un po’ infelice della vita accademica, o della studiosa dei propri ricordi: è un modo per affiancare all’energia irrequieta che viene così spontanea quando ci si innamora della musica un concetto diverso, quello di cura. È come prendere le magliette bianche indossate ai vecchi concerti e fermarsi a notare le macchie di sudore giallo sotto le ascelle per la prima volta: a fissarle bene, potreste vederci delle intere isole, dei continenti. Le croste di qualche vecchia ferita, il reflusso umorale di un sentimento, il bordo sbavato di un’idea che avevate su voi stessi: sono tutte cose che meritano di essere preservate.
Eppure l’accesso alla memoria, la possibilità di farne parte, non è uguale per tutte o per tutti.
Il costo per ottenere queste cose e mantenerle nel tempo, uno spazio in cui esibirsi e in cui creare la propria leggenda, non è uguale per tutte le artiste nella storia della musica: Un lavoro da donne fa bene a sottolineare che la marginalità che ha colpito molte musiciste bianche o afferenti a generi considerati poco prestigiosi o troppo difficili è imparagonabile a quella patita dalle artiste nere o non occidentali.
Il saggio di Margo Jefferson incluso in questo libro, dedicato a Ella Fitzgerald, va dritto al sodo, e punta l’attenzione su uno degli elementi più distinguibili della fatica, il sudore. «Le donne nere ambiziose e di successo devono stare attente al loro rapporto con il sudore in pubblico. […] Ella Fitzgerald suda nelle sale da concerto, nei nightclub (ci sono macchie di sudore su quell’abito da sera rosa fumé al termine della sua performance?), nei programmi della televisione nazionale. In tv il sudore le punteggia le sopracciglia e le sgocciola, addirittura le cola lungo le guance. Il sudore le inumidisce i capelli stirati e arricciati. Il sudore le scorre sulle pietre dei lunghi orecchini».
Jefferson, che si è già cimentata in un lavoro magistrale su Michael Jackson, in Un lavoro da donne presenta un modo di fare critica musicale che amo particolarmente: e cioè quando l’autrice non ha spavento della letteratura e cerca delle immagini, dei simboli concreti e un po’ misteriosi impossibili da dimenticare. Leggendo il brano di Jefferson su Ella Fitzgerald,ho ripensato alle pagine di Elizabeth Hardwick su Billie Holiday nel suo libro Notti insonni, a mio avviso insuperate per il modo in cui fanno collassare il lettore nella voce e nella vita di Holiday, nella sua reiterazione a perdere: è come venire avvolti da volute di fumo nero, e vedere degli smeraldi che ci scintillano in mezzo.
Le recensioni, gli articoli musicali, i saggi in antologie come Un lavoro da donne dovrebbero fare lo stesso: sciogliere l’informazione in una vertigine di bellezza, prendere la storia materiale di un pezzo, di una voce o di una performance per renderla stellare.
A volte però le parole vengono meno: come accade ad Anne Enright che al cospetto dell’amata Laurie Anderson diventa una creatura incapace di farsi capire o riconoscere perché «la grammatica cade a pezzi», oppure semplicemente le parole non sono adatte, intellettualizzano troppo la musica o lo fanno troppo poco.
È un problema comune per chi scrive di musica, la sensazione di perdersi in una riflessione troppo teorica, che non fa «sentire» il pezzo, pur spiegandolo molto bene. Per questo mi sono divertita quando ho letto un passaggio nel brano di Simone White su rap, trap e drill: «La critica non può rompere il cazzo alla trap e non lo farà. Non le romperebbe il cazzo neanche se potesse. La trap ostacola il pensiero sociogenetico; ostacola il pensiero legato alla doppia coscienza».
È quello che avrei voluto dire ai miei colleghi quando scrivevo sulla rivista Mucchio Selvaggio, quando nell’arroganza di quella appena arrivata ero convinta che l’analisi del testo e il dibattito filologico sulla strumentazione musicale dovesse essere accantonato a favore del sentimento e di un’irruenza espressiva capace di farti venire voglia di comprare un disco anche se non ne conosci ogni dettaglio infinitesimale.
Un po’ avevo ragione e un po’ mi sbagliavo, perché è davvero esaltante imparare qualcosa sugli artisti che ci incuriosiscono, e trovare degli appigli in mezzo a ondate di sentimento.
E in questa antologia non solo ho imparato molte cose, non solo mi ha fatto venire voglia di approfondire band e musicisti che non conoscevo, o la storia di alcune canzoni nella Cina comunista (grazie al saggio di Yiyun Li «“Auld Lang Syne” a luglio»), ma ho imparato anche come si può scrivere meglio di un disco o di una canzone.
Dopo aver detto che la critica non può rompere il cazzo alla trap, nel suo saggio White la mette in relazione a due poetesse femministe nere, Nikki Giovanni e Audre Lorde. È un virtuosismo non da poco considerando che la trap viene accusata spesso di misoginia e di mortificazione della donna. Anche Giovanni e Lorde hanno messo i bastoni tra le ruote alla critica, perché «si orientano oltre il linguaggio della soggettività […] per fare invece i conti con le nostre grida, la nostra carne, la ferocia dell’intenzione di raggiungere la completezza. Le circostanze che hanno determinato la negazione della nostra vita non sono quello che siamo. Il motivo è anche, ma non solo, che questo pensiero riguarda la luce e l’assorbimento dei raggi, mentre siamo prone, mentre sorgiamo».
Sembra quasi di perdersi in un pezzo della Sun Ra Arkestra in questa immagine così aperta e astrale, in cui il senso di una rivendicazione politica si fonde con un desiderio di sublimazione artistica.
«Ascoltavo la musica ad alto volume e giravo in auto vivendo le mie emozioni come se quello fosse il mio lavoro», scrive Leslie Jamison nel suo pezzo, e si avverte subito un’eco di Joan Didion nelle famose gite notturne in macchina delle protagoniste dei suoi romanzi, che a loro volta hanno ispirato il Bret Easton Ellis di Meno di zero, che a sua volta ha ispirato una band indie come i Bloc Party quando hanno scritto Song for Clay (Disappear Here), sparire qui. È così che funziona la mente di chi pensa che la musica dica tutto: ogni cosa rimanda a un’altra che ne rimanda a un’altra ancora.
È superfluo dire che in Un lavoro da donne questo gioco di interferenze e di sovrapposizioni avviene in continuazione, una cosa che può farvi impazzire dalla gioia o mettervi malinconia.
Chi ama il rock tende a raccontare sempre le stesse storie: è una cultura necessariamente nostalgica, perché si basa sugli archetipi, non muore, ma si reinventa piano, e a volte male.
Il rock è un po’ lo zio ubriaco ai matrimoni, continuate a chiedervi com’è che siete imparentati, non vi fa ridere più come un tempo, ma avete bisogno che ci sia. È il motivo per cui i generi passati in rassegna in quest’antologia sono tanti e non a caso producono ritratti tanto più vivaci quanto più ci si discosta dalle chitarre e quello zio molesto viene azzittito, passando dalle colonne sonore esoteriche di Shining e Arancia meccanica all’avanguardia della voce di Linda Sharrock.
Un’ultima interferenza. Rachel Kushner, che qui leggerete a proposito di Wanda Jackson, qualche tempo fa ha chiamato in causa Joan Didion perché nel suo pezzo sui Doors in White Album dice tre volte che Jim Morrison indossava dei pantaloni di «black vinyl» e non di pelle nera. Con un tono un po’ irriverente, Kushner le fa notare che con il vinile si fanno i dischi, non i pantaloni, e che quelli di Morrison erano di pelle. «Persino una debuttante di Sacramento avrebbe dovuto sapere la differenza».
Bene, io non la so: continua a piacermi il suono di quel black vinyl, e l’idea che si possano indossare dei pantaloni fatti di musica e solchi non mi dispiace del tutto.
Una bambina che guarda un film sui Doors a dieci anni ci crederebbe. E soprattutto continuerebbe a pensare che il ragazzo sul palco poteva pure cantare, ma la cosa migliore sarebbero state le donne che un giorno ne avrebbero scritto.
Claudia Durastanti
In copertina: Laurie Anderson