Una bella mostra in Palazzo Ducale a Venezia offre una panoramica sul Settecento veneziano: una ricca selezione antologica, capace di sintetizzare con efficacia una delle stagioni più felici della storia dell’arte in Italia
Il titolo dell’esposizione, Canaletto e Venezia, non deve ingannare: non si tratta di una monografica dedicata a Canaletto, ma di una vera e propria mostra antologica che aspira (e riesce) a offrire una panoramica di un intero secolo di arte in laguna. Che si sia voluto usare il nome di Canaletto come richiamo per il pubblico è allora un peccato veniale; quello che conta è che la mostra funziona: pezzi ben scelti, un allestimento semplice ma funzionale, pannelli didascalici che forniscono le coordinate necessarie per orientarsi.
Una sequenza di sale per raccontare, in ordine cronologico, lo sviluppo di un secolo di pittura a Venezia: un racconto piano, senza complicazioni intellettuali, affidato ai dialoghi tra i dipinti capaci, se montati a dovere, di trasformare la cronologia in storia. Dalle premesse fino agli estremi esiti: c’è Sebastiano Ricci che, in apertura di secolo, mette a punto una formula pittorica di cromie brillanti e felicità decorativa, con più di un occhio alle glorie del passato veneziano, Paolo Veronese in testa; c’è Luca Carlevarijs, un friulano trapiantato in laguna che per primo, pur con limitato talento, inventa la formula delle vedute cittadine che di lì a poco artisti più dotati avrebbero consacrato; c’è Rosalba Carrera capace di costruire un successo su scala europea con gli innovativi ritratti a pastelli con cui cattura le fattezze un po’ sognanti dei maggiori committenti del continente, di qui e di là della Manica.
E poi ci sono gli sviluppi, i protagonisti maggiori: dalla premiata ditta Canaletto&Bellotto (zio e nipote, il secondo geniale continuatore ed esportatore mitteleuropeo dei modi del primo) a Giambattista Tiepolo all’immenso – e troppo poco considerato – Giambattista Piazzetta; è lui, il più eccentrico e inquieto tra i maestri in mostra, a guadagnare per lunghi tratti il centro della scena con dipinti accuratamente selezionati giunti in Palazzo Ducale fin da Boston o Chicago (e proprio a lui è dedicata una delle poche sale tematiche che vengono a interrompere la successione storica: una strepitosa selezione di ritratti a matita che rende conto di questa particolare specializzazione del suo talento).
Piazzetta è capace di scegliere i propri riferimenti (da Caravaggio a Rembrandt a Giuseppe Maria Crespi) fuori dalla rosa dei nomi scontati per un artista cresciuto all’ombra di San Marco, e mettere a punto uno stile personale, fatto di ombre fonde, di cromie terrose, di iconografie quotidiane o sottilmente allusive, anche in senso erotico; certo lontane dalle straordinarie e chiassose fantasmagorie in technicolor che faranno la fortuna europea di Tiepolo. Eppure, come bene si comprende in mostra, lo stesso Tiepolo, nella sua giovinezza, è tutt’altro che insensibile alle ricercatissime soluzioni messe a punto da Piazzetta.
Anzi, è questo uno dei meriti maggiori dell’esposizione: i percorsi di Giambattista Tiepolo e di Canaletto si articolano davanti agli occhi del visitatore, mandando in frantumi interpretazioni troppo monolitiche e stereotipate: li si segue dalle giovinezze più sperimentali, mentre assorbono stimoli diversi e si trasformano, fino alla messa a punto di una formula – a quel punto sì ripetitiva – riconoscibile e di successo: di successo perché riconoscibile, ancora oggi.
Tiepolo non è solo il frescante pronto a decorare con decametri quadri di svolazzi rococò le volte di aristocratici o principi vescovi; e non tutte le vedute di Canaletto sono uguali: né per qualità, in funzione dei committenti che cambiano, né per stile. Le vedute degli anni Venti, tra cieli corruschi e ricercati effetti pittorici, sono cosa ben diversa dalle atmosfere terse, dalle luci cristalline, dagli effetti di precisione miniaturistica dei dipinti della maturità.
Le opere sono scelti con infallibile senso della qualità: non i Canaletto o i Tiepolo che erano a disposizione, ma, nei limiti del possibile, i Canaletto o i Tiepolo migliori e giusti per raccontare quel segmento di storia: e basta scorrere la lista dei prestatori per rendersi conto dello sforzo produttivo (che non significa solo economico, ma anche di progettazione) messo in campo in collaborazione con la Réunion des musées nationaux – Grand Palais. I disegni, per una volta, affiancati ai dipinti, e non relegati in stanze di quarantena: in dialogo, per una migliore comprensione dei disegni stessi, dei dipinti, dei dipinti in relazione ai disegni.
Accanto ai protagonisti, scorrono i comprimari, da Antonio Pellegrini a Giambattista Pittoni a Gaspare Diziani a Giambattista Crosato a Federico Bencovich (con una pala d’altare ritrovata, una trentina d’anni fa, nella parrocchiale di Senonches, nella Loira): a complicare e sfaccettare un panorama irriducibile a semplificazioni troppo schematiche. Scorrono committenti e patroni, sulle piste di ricerca aperte da uno dei capitoli più belli di uno dei libri di storia dell’arte più belli (e più importanti) del secolo scorso: Patrons and painters di Francis Haskell, anno 1963. Né mancano affondi mirati per rendere conto anche di scultura e arti congeneri: dagli argenti alle manifatture di porcellana, impiantate in laguna, con alterne fortune, per tentare di fare concorrenza ai prodotti di Meissen o Sevres.
E c’è spazio ancora, prima che l’esposizione si chiuda, per tratteggiare le parabole di altri due artisti che conducono la grande lezione del Settecento veneziano quasi oltre i limiti storici di quella stagione, in un mondo che rapidamente si trasforma.
Il primo è Francesco Guardi (1712-1793): la tersa razionalità ottica del vedutismo à la Canaletto si trasforma, nei dipinti dei suoi ultimi anni, in foschie e tremolii e atmosfere che sfarinano le forme e confondono le prospettive. Fin troppo facile leggere nelle sue strepitose variazioni di toni su toni, di grigi e argenti (in mostra ci sono alcuni dei suoi pezzi più poetici, dalle collezioni Thyssen e Gulbenkian), il segno di una civiltà in disfacimento, tra certezze che vengono meno e nuove sensibilità che avanzano. Con molto senso, i suoi dipinti sono accostati in mostra ad alcune stampe di Giambattista Piranesi (1720-1778), veneto a sua volta: quelle rovine, vestigia del mondo classico distorte in sublimi capricci per forza di prospettiva, che tanto avrebbero contato per la sensibilità romantica a venire.
Il secondo è Gian Domenico Tiepolo (1727-1804), il figlio del grande Giambattista, erede e continuatore della ditta paterna (la madre è Maria Cecilia Guardi, sorella di Francesco: come sempre accade, la storia del Settecento veneziano è, anche, una storia di famiglie e dinastie). A lui l’arduo compito di portare avanti la tradizione delle grandi decorazioni rococò in un’Europa che va scoprendo nuovi rigori neoclassici; lo sfavillante linguaggio pittorico paterno è così adattato a nuovi soggetti: scene di vita quotidiana prendono progressivamente il posto di magniloquenti trionfi e gesta di eroi.
Negli ultimi anni della vita però, mentre le occasioni di lavoro si diradano, Gian Domenico trova in sé la forza di inventare uno straordinario album di disegni dedicati ai Pulcinella, ammirato anche dal grande David Hockney: un «divertimento per li ragazzi in carte 104», a penna e acquarello (ben quattordici sono esposti in mostra, dall’Inghilterra e dall’America), per trasfigurare la società contemporanea in un mondo, incantato ma sottilmente malinconico, di Pulcinella, liberi eguali e fratelli. È, per il vecchio Giandomenico, un modo di guardare agli slanci e agli entusiasmi che, dalla Francia rivoluzionaria, stavano cambiando il mondo; con ammirazione e partecipazione sì, ma attraverso un velo di ironico, tutto settecentesco, distacco: privilegio o condanna dell’età senile.
Canaletto e Venezia, a cura di Alberto Craievich, Venezia, Palazzo Ducale, fino al 9 giugno 2019
Immagine di copertina: Giambattista Piazzetta, Ragazzo al mercato, 1715-1718 circa, Boston, Museum of Fine Arts