Il prestigioso festival di musica contemporanea ha preso il via onorando la sua missione: frugare nelle diversità che ogni luogo e cultura stratifica nel tempo, contraddizioni comprese
Due mondi lontanissimi. L’uno di un americano riemerso dagli anni Settanta, tempo in cui anime candide spogliavano la musica di ogni ambizione per tornare alla purezza del suono e alla semplicità disadorna del comporre. L’altro di un europeo, italiano, italianissimo, che dalle radici nobili della musica occidentale ha preso il volo per creare un linguaggio suo, inimitabile, in cui il suono recupera un libero respiro e la voce non tradisce la Parola. Tra l’uno e l’altro, due passaggi attraverso generazioni più giovani, con le suggestioni cameristiche di una trentasettenne svedese, Lisa Streich, e la sfida elettronica al pianoforte di un altro italiano, Stefano Pierini.
Sabato 7 e domenica 8 maggio Milano Musica ha inaugurato la trentunesima stagione onorando la missione di un festival di musica contemporanea: frugare nelle diversità che ogni luogo e cultura stratifica nel tempo, contraddizioni comprese. Rispetto alle molte edizioni passate in cui i “Percorsi” seguivano pensieri consolidati, nel 2022, oltre a recuperare la primavera-estate (7 maggio-11 giugno) come spazio vitale, Milano Musica torna a osare. Il titolo che si è dato, Suoni d’ombra – ancorati a sempre seducenti fili mitologici: Orfeo, Euridice, Hermes -, dice il vero sulla musica che si fa.
L’americano venuto dal passato (sabato 7 maggio alla Fabbrica del Vapore) era Alvin Lucier, nato nel 1931 e scomparso un anno fa. Nel libro di centoquindici ritratti che Roberto Masotti ci ha lasciato come vangelo laico di cinquant’anni d’ogni musica possibile (You Turned The Tables On Me, Auditorium Edizioni), a pagina 80 c’è un suo ritratto da giovane (1975), quando la Cramps di Gianni Sassi metteva in disco solo eretici della musica contemporanea che alzavano il dito medio alle accademie di ogni ordine e grado.
Il pezzo con cui Milano Musica ha aperto il 2022 era So You… (Hermes, Orpheus, Eurydice), per voce, clarinetto, violoncello, oggetti risonanti ed elettronica. Scritto nel 2017, dunque non un reperto del passato, è come se lo fosse: consiste nello stiramento, sul ponticello dell’arco basso e nell’ancia del clarinetto, di una sola nota appesa a diversi righi aggiuntivi sopra la chiave di violino, appena mossa dalle vibrazioni di un oscillatore. L’esercizio di scrittura, se così vogliamo chiamarla, consiste nello spremere tutte le coloriture possibili da una materia elementare. L’esercizio di ascolto, sessanta minuti di fissità quasi trappista, è veramente severo e per alcune generazioni (e culture) difficilmente sopportabile.
In questa assoluta fissità, come entrano la voce e la compagna di Orfeo? Con Eurydice, testo magnifico (1917) di una scrittrice a molti sconosciuta, Hilda Doolittle, americana, fiamma giovanile di Ezra Pound e donna meravigliosa che non si dimenticò di lui, amico e maestro di scrittura, negli anni bui del manicomio.
Eurydice è un poemetto in cui l’amante rimprovera Orfeo di crudeltà e arroganza per aver tradito l’impegno di non voltarsi verso di lei prima di uscire dagli inferi, sprofondandola in un destino che per un passo poteva essere evitato. Le parole che Hilda affida a Euridice sono una variante femminile, dolorosa e accorata, di un rapporto d’amore indagato quasi sempre a senso unico. Con quella poesia fra le mani, ci si sarebbe aspettati molto lavoro per la cantante solista. Invece Alvin Lucier, forse preso dalla consapevolezza di non saper dare risposta a quelle parole, estrae dai più di centotrenta versi solo qualche frammento, qualche dittongo, So you, So far, Why did, What was: i dubbi di Euridice intonati con fissità speculare agli strumenti dalla voce femminile, che nel soprano Livia Rado ha trovato l’ammirevole interprete di un’angosciata afasìa.
Infine, che cosa trasmette So You… di Lucier? Sicuramente qualcosa che assomiglia all’inferno di Euridice: restare sospesi per sessanta minuti fuori dalla realtà.
Anche nel secondo mondo, lontanissimo e in prima esecuzione assoluta (domenica 8 maggio sempre alla fabbrica del Vapore) la materia letteraria era di pregio e di impegno: Una lettera e 6 canti di (classe 1947) mette in musica appunto una “lettera” di Izumi Shikibu tratta dal Diario datato 1002-1003, due versioni de La conchiglia di Giuseppe Ungaretti, emozionante confessione d’amore di un ottuagenario per una giovane, una Canzone del Tao e una Filastrocca del moto e della mente dal Discorso sul flusso del sangue di Bodhidarma, maestro Zen, I libbra, poesia in dialetto trapanese di Nino De Vita, e Il figlio delle muse, iscrizione del Palazzo Ducale di Urbino.
Sciarrino non ha paura della parola, se ne nutre, e a queste sette sollecitazioni estreme dà risposte modellate sul linguaggio che ormai riconosciamo come parte della cultura vocale italiana contemporanea. Tutto è comprensibile, ma in una flessibilità della prosodia che continua a sorprendere (Livia Rado ancor più da ammirare). Alle finezze aeree dello strumentale – risonanze e sospiri di tre archi, tre fiati e pianoforte – c’erano ancora i giovani del mdi Ensemble a dare risposta precisa, festeggiati come meritano dopo già vent’anni di attività dedicata a tutte le avanguardie.
Fra Lucier e Sciarrino erano inserite due sperimentazioni altrettanto lontane fra loro: Francesca di Lisa Streich (1985), che, ispirata alla Santa Francesca Romana affrescata da Antoniazzo Romano nel convento di Tor degli Specchi di Roma, punteggia su piccolo organico frammentazioni strumentali spezzate e discontinue; Invenzioni (Solo V) in cui Stefano Pierini (1971) mette a confronto il pianoforte con un suo “doppio” elettronico acustico, in un dialogo a tratti ricco di “fughe” e suggestioni.
Decisi o meno a riconoscersi nell’estetica e nella qualità dei brani, quel che si è ascoltato nelle prime giornate di Milano Musica non ha tradito il tema che il festival si è dato: il suono (il canto) e le sue ombre. E c’è da attendersi che gli appuntamenti di qui all’11 giugno lo illuminino da angolazioni diverse.
Già stasera l’Auditorium San Fedele offre cinque assaggi ancora in prima esecuzione: il Trio per archi n.2 di Lachenmann, Pros mathematikous e A Villa in the Jungle di Yair Klartag, Orpheus Falling di Sarah Nemtsov, Ensembletrilogie di Sergej Newski, con l’Ensemble Recherche impegnato anche nella dimensione elettronica.
Venerdì 13 e domenica 15 maggio, all’Auditorium di Milano l’Orchestra ex Verdi, oggi “di Milano”, si dedica a Lutoslawski e Bartók. Lunedì 16 maggio, alla Scala, l’Orchestra Nazionale della Rai rende merito non sempre riconosciuto a due compositori che della rarefazione, del silenzio e del chiaroscuro sono amici: Sofija Gubajdulina e Arvo Pärt. Dirige Pedro Amaral (anche la Sinfonia n.15 di Šostakovic), mentre il violinista Vadim Repin dedica il concerto “ai valori democratici di umanità, fratellanza e solidarietà fra i popoli”. Dichiarazione che sappiamo cosa significhi e quale valore abbia per un musicista russo.
Un’altra prima da non perdere venerdì 20 maggio, con Andrea Lucchesini che al Conservatorio esegue, fra Berio, Bartók e Liszt, la Sonata n.2 di Fabio Vacchi.
Voci e ombre senza dubbio anche martedì 24 maggio al Pirelli HangarBicocca, spazio in cui Milano Musica ha sempre ambientato cose attraenti, con soprano, contrabbasso e live electronics di Martin Smolka e Anna Zaradny. Suoni e ombre garantiti il 27 e 28 maggio al Meet Digital Culture Center con una “performance audiovisiva” firmata Bernard Parmegiani.
Ma tra Scala, Elfo Puccini, Chiesa di San Marco, di altre proposte fuori dagli schemi bisognerà dare conto a suo tempo.
Foto: studio Hanninen