Giuliano Scarpinato ripesca dalle sue memorie di figlio di due magistrati per raccontare, senza infingimenti, cosa significa davvero nascere e crescere sotto scorta. Fino al 19 maggio al Teatro Menotti
Mentire è il modo più preciso per dire la verità, se mentire è mettere in scena. Lo ha scoperto Giuliano Scarpinato, che in “Il tempo attorno”, in scena fino a domenica ha trasfigurato se stesso in un Benedetto bambino prima e adolescente poi. E non importa – né è il punto – la misura di verità e di finzione che nascondono suo padre Roberto e sua madre Teresa Principato, magistrati antimafia, sotto i nome de plume di Paola Randazzo e Michele Vetrano. Quel che conta è che, attraverso la finzione, si può svelare l’ombra di essere quelli che – nel migliore dei casi – la società ha bollato come eroi, o più facilmente dimenticato o messo all’indice. Anche – forse soprattutto – quando a misurare la loro vita e i loro passi c’è una scorta, che Scarpinato mette in scena coi panni di Liborio Mansueto (un misurato Alessio Barone), autista e musicista con più di tre lustri di insospettato conservatorio alle spalle, e di Diego De Piccolo, Gaetano Migliaccio che porta in scena tutta l’energia partenopea.
Ad andare in scena, davanti a un mondo che troppo spesso ancora oggi guarda in tralice chi ha visto la sua vita cambiata dalle minacce delle mafie, non diversamente dalla donna che, nel 1992 scriveva ai giornali perché le auto della scorta di Falcone le disturbavano la pennichella. Parla ad oggi, ma è proprio a quegli anni che riporta il lavoro di Scarpinato, con tutto il suo immaginario plasmato sui cartoni animati giapponesi del pomeriggio che un bambino assorbe, unica (o quasi) compagnia, oltre al cibo trangugiato per tamponare la paura, mentre i genitori sono sempre al lavoro. La paura dentro cui il piccolo Benedetto cresce (Emanuele del Castillo ne incarna in modo molto convincente espressività e fragilità) non è comune, nemmeno negli anni Novanta, nella Sicilia di Falcone e Borsellino. È quella del figlio di chi, di Falcone e Borsellino, Paolo e Giovanni – e soprattutto, Francesca, la giudice Morvillo – è amico e collaboratore. È quella di un ragazzino che non sa, non può sapere, perché la sua vita è diversa da quella di tutti gli altri. E sa solo provarne vergogna. Almeno fino a che scopre che nemmeno un ragazzino come lui, Giuseppe di Matteo, che amava andare a cavallo e vestiva da fantino, in quel mondo può, semplicemente, sparire dentro un bidone dell’acido e a poco vale cercare di capire come sia possibile. Nella sola rottura del realismo scelto per la scena da Diana Ciufo, concretizzando la metafora, a chi come il giudice Scarpinato si assume il compito di giudice del potere per antonomasia, non resta da scalare solo la montagna che si fa banco d’accusa di Andreotti, ma soprattutto quella sempre a rischio di franargli dentro e tra le mura di casa.
Senza mai cedere al melò ma con una sincerità quasi violenta, lo sguardo di chi lo ha attraversato restituisce un interno bunker che imprigiona una famiglia che si aggrappa a se stessa anche mentre l’ombra della morte e del dovere li sfalda. Nella realtà restituita dalla scena c’è un padre – un rigoroso Giandomenico Cupaiolo che prova a fare il padre lottando con la propria ambizione, una madre che si educa a pensarsi inscalfibile (come si vogliono certi uomini) per validare se stessa e la sua carriera. Nota di merito in questo senso a Roberta Caronia, che di Paola riesce a incarnare il rigore come lo strazio perdere in credibilità, facendosi carico di picchi di intensità potenzialmente scivolosi, per la scena, dal parto alla morte di Francesca Morvillo, amica e alter ego cui è negata la strada che lei ha invece percorso.
Che Paola e Michele si siano conosciuti ragazzi facendo teatro senza desiderarlo per il futuro, al netto della nota di tenerezza e autobiografia, resta allora un’eloquente chiave di lettura di quello che sarebbe seguito. Solo il teatro, suggerisce Scarpinato forse senza volerlo, dà cittadinanza alle contraddizioni e agli egoismi, all’umanità che il ruolo esclude. Lo fa con garbo ma senza semplificazioni, dove la ricomposizione degli strappi ha la forma fragile e definitiva al contempo, del momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Lo stesso che impone allo spettatore di guardare a questo agile ed efficace bignami di storia contemporanea dell’antimafia e della società, dal cuore degli anni Ottanta al nuovo millennio inoltrato, di riconoscere cosa di quelle battaglie abbiamo trasformato in patrimonio comune e cosa e chi, al contrario, stiamo ancora rimuovendo e giudicando. Il teatro che si voglia civile, tanto più quando pesca dal personale, filtrando la Storia attraverso le storie, è chiamato a quello che riesce a questo lavoro: con precisione, lasciar risuonare l’urgenza della realtà.