C’è un tempo della vita che trova grande attenzione in letteratura: il morire. Un limbo che la letteratura affida a personaggi di età, sesso e condizioni sociali differenti
Iniziamo una riflessione sul morire in letteratura con il romanzo di Philippe Forest Tutti i bambini tranne uno, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2005.
C’è un tempo della vita che trova sempre maggiore attenzione in letteratura: il tempo del morire. Non si cada frettolosamente nella tentazione di pensare a tutte quelle opere sulla morte, perché non è di morte che si sta parlando, ma del morire appunto: di quel periodo della vita che la morte la precede; del periodo di una vita che terminando inizia la morte, ma non la comprende. Perché se la morte è da sempre uguale identica a se stessa – e in sé uguale per tutti – è cambiato il modo di morire, che nuove cure e tecnologie rendono un faticoso prolungamento della vita. Settimane, mesi, anni: un tempo non sempre definibile che il morente vive in un limbo abitato dal morente stesso, da solo, o insieme ai famigliari, cui spetta, dopotutto, di accompagnarlo.
Un limbo che la letteratura fa conoscere da dentro le vite di personaggi di età, provenienze, estrazioni socioculturali differenti, e che vogliamo iniziare a frequentare con Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest (Ed. Bur, 344 pgg.). Un limbo che nel libro lo stesso autore (delirio?) definisce come l’anno più bello della sua vita. Un anno dove non c’è solo la malattia di Pauline, e le cure e la luce bianca delle stanze di ospedale, e le cartelle cliniche; ma pure la sua vita di bambina fatta di giochi, cartoni, peluche, papà e mamma. Un anno dove però il tempo si è fermato, dove, in un asfissiante parallelo con L’isola che non c’è di James Matthew Barrie, Pauline è la bambina di quattro anni che non crescerà.
Pagine che lasciano il lettore, come avverte Elisabetta Rasy nella prefazione del libro, nel chiasmo tra chi scompare e chi rimane, quel punto di vita dove l’essere – o l’esserci – irrimediabilmente si sfa. Pagine che, come ricorda ancora la Rasy, fanno rientrare questo libro nella tradizione francese del Tombeau, qualcosa di più di un ricordo, qualcosa di più di un compianto, e diverso da un semplice omaggio, una sorta di monumento funebre in parole, che Forest conclude così:
Ho fatto di mia figlia un essere di carta. Ogni sera ho trasformato la mia scrivania in un teatro d’inchiostro dove ancora si recitavano le sue avventure inventate. Il punto finale è messo. Ho risposto il libro in mezzo agli altri. Le parole non danno nessun soccorso. Faccio un sogno, questo. Al mattino mi chiama con la voce allegra del risveglio. Salgo in camera sua. È debole e sorridente. Scambiamo le nostre frasi quotidiane. Non può più scendere la scala da sé. La prendo in braccio. Sollevo il suo corpo infinitamente leggero. La sua mano sinistra si aggancia alla mia spalla; fa passare intorno a me il braccio destro, sento nell’incavo del collo la presenza tenera della sua testa nuda. Reggendomi al corrimano con lei addosso, la porto con me. E ancora una volta, verso la vita, scendiamo i gradini ripidi della scala di legno rosso.
Sainte-Cécile, 25 aprile – 25 giugno 1996
Immagine di copertina by Roberto Zingales