Il vero, coraggioso Boris Godunov

In Musica, Weekend

Inaugurazione scaligera da ricordare: la prima versione del Boris Godunov di Musorgskij, potente e cupo racconto del sanguinoso prezzo del potere, scelta da Chailly e magnificamente interpretata da Ildar Abdrazakov e da un cast e un coro all’altezza della sfida

L‘ Inno di Mameli rifinito come una sinfonia avanti l’opera; giusta vendetta degli scempi da stadio. L’Inno dell’Unione Europea, ovvero il Beethoven elisio della Nona Sinfonia, ricamato per non farlo sembrare nemmeno un inno. E poi un’opera russa, composta dal russo Modest Petrovič Musorgskij sulla tragedia del più squisito dei poeti russi, Aleksandr Puškin, cantata in russo da un formidabile cast madrelingua, celebrazione del canto dominato dal colore scuro dei bassi, esaltata da un coro italiano disciplinatamente piegato e poi vertiginosamente in volo sulla parola russa. 

Quindici minuti di musica, mercoledì sera alla Scala, per capire quello che tutti sanno, tranne i politici: che solo gli artisti, abituati a inventarsi una realtà fuori e sopra la vita, sanno svelarci il mondo come dovrebbe essere. L’Italia, l’Europa e la Russia insieme, le possiamo vedere nella fantasia oppure suonarle nello stesso teatro. E in poco più dei primi quindici minuti abbiamo intuito che il Boris Godunov del 7 dicembre 2022 sarebbe stata una delle inaugurazioni più importanti e coraggiose degli ultimi anni.  Almeno musicalmente. Le ragioni sono diverse, tutte intrecciate fra arte e vita.

La storia e la Storia Il Boris Godunov di Musorgskij racconta uno spicchio di storia russa, ma non è una celebrazione della Russia. È uno sguardo severo e poetico su vicende di casa adatte a universalizzare, scespiriamente, una riflessione sulle ossessive ripetizioni della storia in ogni tempo e luogo. E per muovere ‘da dentro’ quelle ripetizioni, altrettanto scespirianamente scava nell’intimo di un personaggio che visse sulla sua pelle i destini già scritti del potere. Ascesa e caduta.  È solo questione di tempo.
Le vicende che Puškin raccontò nel suo Boris Godunov, lavoro teatrale irrappresentabile, e che Musorgskij ritagliò per stendere il libretto della sua opera, invece felicemente rappresentata nel mondo, sono i sette anni di torbidi che vanno dal 1698 al 1605: il regno di Boris Godunov. Non i primi e nemmeno gli ultimi.  

Alla morte di Ivan il Terribile, diventa zar il figlio nato dal primo matrimonio, Fëdor. Morto lui, il trono resta vacante perché il piccolo zarevič Dmitrij, figlio del settimo matrimonio di Ivan (con Irina, sorella di Boris Godunov), viene sgozzato da non si sa chi. Corre il nome di Boris, ma i boiari sono comunque certi che sia lui il miglior zar possibile. Cercano di convincerlo, ma Boris si è ritirato con la sorella nel convento di Novodevič’i, vicino a Mosca, in ermetico silenzio. E questo è l’antefatto di entrambe le opere. 

La prima scena del Boris Godunov di Musorgskij si apre appunto sul chiostro di Novodevič’i e presenta il vero, grande protagonista dell’opera: il popolo. Una folla cenciosa (nello spettacolo vestita di tuniche rosse ben stirate) viene obbligata dalla polizia a prostrarsi, piangere e invocare Boris affinché accetti la corona. La polizia deve insomma fornire un “voto popolare”, con bastoni e fruste, che consenta l’elezione di uno zar senza investitura. Voto spontaneo, appunto. Ricorda qualcosa? 

Il primo dei sette quadri dell’opera è tutto per il coro, che nelle voci della Scala preparate da Alberto Malazzi dà una delle prove più forti e orgogliose degli ultimi tempi.  Lo spettacolo che il regista danese Kasper Holten costruisce con le scene di Es Devlin e i costumi di Ida Marie Ellekilde, in quel primo quadro spende, poco visto, un gesto di forza simbolica: lungo i bordi di un grande manoscritto che scende dal fondale al proscenico (il libro di storia russa che il monaco Pimen scrive nella sua cella, un atto dopo), due file di monaci o scrivani o lettori del futuro strappano mazzi di fogli di quelle cronache.

La tragedia della memoria negata. Come diceva qualcuno: la storia è una grande maestra, ma senza alunni. Peccato che quel gesto sia l’unico notevole di uno spettacolo inerte, visivamente consegnato al bianco e nero di grandi manoscritti accartocciati e di vaste carte geografiche in frantumi della Russia (allora non ancora impero ma solo principato di Mosca). Unico scrupolo lodevole, evitare il consunto immaginario zarista (solo una corona compare sulla testa di Boris nell’atto Primo), però al prezzo di ambientare in un interno borghese Kitsch la scena della famiglia Godunov in cui si acclara (forse) la verità dell’infanticidio e in cui Boris (un clamoroso Ildar Abdrazakov, gigante nell’impeccabile cast e accanto al coro) affonda nella disperazione fino a morire. Per di più colpito, nello spettacolo, da un pugnale che nel Boris non c’è, perché Musorgskij sospende sempre l’infanticidio e la morte di Godunov nella dimensione dell’incertezza, riflessa nella musica del finale, bellissimo, sospeso nel vuoto.

Il popolo Boris Godunov di Musorgskij non è una celebrazione della storia russa così come, pure in pagine corali meravigliose, non è una celebrazione del Popolo. All’inizio, il Coro canta una folla recalcitrante e violentata nel prostrarsi a pregare Boris di accettare la corona: è un popolo che sa di essere usato. Quando Boris viene incoronato (Quadro II), il coro alza festosi Gloria davanti alla cattedrale dell’Assunzione: si aspetta pane e monete. Nel primo quadro della quarta parte, il popolo volta le spalle a Boris e si schiera dalla parte del falso Dmitrij, l’usurpatore. Vuole lo zar, che adorava, morto. Anche il figlio chiede di “legarlo, affogarlo”, perché si estingua la stirpe. Ma quando si diffonde la notizia che Godunov è morto, il popolo si zittisce impietosito da quello che un minuto prima pretendeva. La musica di Musorgskij è la plastica narrazione della volubile crudeltà dell’uomo quando s’immerge nella dimensione collettiva (social), in cui l’individuo può nascondersi e assolversi. Niente di nuovo. Come Shakespeare e Verdi, del potere Musorgskij racconta di che lacrime grondi e di che sangue. Delle operazioni militari speciali, sappiamo che cosa penserebbe. Puškin, per il suo Boris Godunov, venne indagato ed esiliato. 

Il primo Boris Lo sguardo disincantato sull’uomo ha nella prima versione di Boris Godunov la sua espressione più dura, musicalmente asciutta, prodigiosamente moderna, scavata nelle voci e asciugata nell’orchestra. È la versione che nel 1869 Musorgskij presentò alla commissione dei teatri imperiali di San Pietroburgo per riceverne, ovviamente, un rifiuto: non era abbastanza seducente per i gusti del pubblico. Furono però gentili i giudici censori: lo invitarono ad arricchire il piatto. E Musorgskij lo fece, per la versione del 1872, aggiungendo quadri leggeri, una stupenda divagazione ‘polacca’ in cui introduceva anche il tema dell’invasione dello straniero, un finale corale in cui ancora una volta il popolo era protagonista, ma dopo la morte di Boris. 
L’Ur-Boris, ovvero la prima versione che Musorgskij mise a punto, due ore secche di musica severa e diretta, oscura e cupa nei colori, emotivamente infallibile, è quella che Riccardo Chailly ha scelto per questa inaugurazione, servendola con una forza di penetrazione impressionante. L’orchestra lo segue convinta e concentrata. Dopo Salome di Strauss, ancora in tempi di pandemia, Boris Godunov – in scena ancora il 10, 13, 16, 20, 23 e 29 dicembre –, è forse il risultato più alto della sua direzione musicale alla Scala. Lo è anche per aver sostenuto un‘opera russa contro ogni pressione e l’Ur-Boris al di là di tutto. Dopo le prime milanesi del 1909, poi del ’22, ’23, e ’24 con Toscanini, generazioni di italiani alla Scala hanno conosciuto Boris Godunov come Musorgskij non l’ha mai scritto, soprattutto nella versione che Rimskij Korsakov ne fece correggendo i compiti di Modest Petrovic, poi in quella più rispettose ma comunque inautentiche di Šostakovic. Fatta eccezione per un passaggio di Gergiev agli Arcimboldi nel 2002, quando il Piermarini era in restauro, oggi il primo pensiero di Boris Godunov si è ascoltato alla Scala per la prima volta. Il che, considerato che Musorgskij è uno dei compositori peggio trattati dalla storia, completa il significato e l’importanza del 7 dicembre 2022.

Foto: Brescia e Amisano,Teatro alla Scala.

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