Dipinti sfregiati da Francis Bacon e una barzelletta sui carabinieri targata Cattelan, Jean-Auguste-Dominique Ingres e la salma di Bismarck, Cy Twombly e strumenti di spionaggio sovietici. Tutto questo (e molto altro) nella strepitosa mostra inventata da Thomas Demand alla Fondazione Prada dove, con rigorosa coerenza, ci si interroga sulle immagini rubate.
La Fondazione Prada di Milano è diventata la scena del furto d’arte internazionale. No, non si tratta di una reale rapina, ma della nuova mostra L’image volée curata dall’artista Thomas Demand (1964): «una selezione eccentrica di oggetti che ho trovato, di cui ho sentito parlare e che mi piacciono» associati al tema del furto e dell’appropriazione. Niente viene creato dal nulla diceva Lucrezio, e così anche le opere d’arte contengono necessariamente un riferimento ad altre già esistenti, un plagio più o meno evidente che trasforma gli oggetti in refurtiva e gli artisti in scippatori. D’altronde — come attenuante — quante volte ci è capitato di scoprire che una nostra idea era già stata pensata da qualcun altro?
Nel 1907 Picasso e Guillaume Apollinaire commissionarono all’amico Géry Pieret il furto di alcune sculture iberiche arcaiche del Louvre, la cui influenza è visibile ne Les demoiselles d’Avignon. L’avvenimento venne alla luce soltanto quattro anni dopo, sull’onda del famoso furto della Gioconda, quando Pieret si vantò con la stampa parigina di aver anch’egli rubato dallo stesso museo. Picasso e Apollinaire furono così arrestati, ma per la rapina sbagliata, cioè per quella del dipinto di Leonardo che ancora oggi è il più citato, riprodotto e “cannibalizzato” del mondo. Questa vicenda, che mescola fra loro i livelli dell’appropriazione indebita e dell’ispirazione estetica, costituisce un significativo antefatto per la narrazione tripartita de L’image volée.
La prima sezione della mostra, Furto vero e proprio, è quella dove gli oggetti sottratti sottolineano i nessi fra arte e corpo del reato, fra artista come vittima o criminale. I poster di John Baldessari, presenti alla Fondazione e disseminati per Milano, sono un riferimento a cinque tele (Matisse, Picasso, Léger, Braque e Modigliani) rubate nel 2010 dal Musée d’Art moderne de la Ville de Paris. Le cornici delle opere, mai ritrovate, furono abbandonate a terra dal ladro. Esposta a terra è anche la cornice del Ritratto del Dottor Gachet di Van Gogh (1890), che, già confiscato dallo Städel Museum di Francoforte dai nazisti, risulta disperso dal 1996. Questi contenitori ci chiedono di non essere dimenticati in un angolo e testimoniano un’assenza che ancora brucia al corpo collettivo. Rubato solo in parte fu invece il dipinto di Adolph Menzel che adornava l’appartamento di Hitler a Monaco: ampie sezioni ne furono asportate per ricordo dalle truppe USA penetrate in città nel 1945. Ovvero: quando l’iconoclastia produce souvenir.
Gli artisti possono rubare letteralmente. Nel 1969 Richard Artschwager spiega per telefono come sottrarre dalla casa di un amico un tappeto persiano, esposto poi alla mostra Art by telephone di Chicago. Ulay, più radicalmente, si reca di persona alla Neue Nationalgalerie di Berlino, stacca un dipinto Biedermeier da un muro e lo appende nel salotto di una famiglia turca nel quartiere Kreuzberg. There Is a Criminal Touch to Art (1976) è il titolo dell’azione di un ladro buono che regalando ai poveri riattualizza l’arte passata, sollevando interrogativi sull’immigrazione e sul nazionalismo (Ulay fu poi costretto a lasciare il paese per evitare la prigione).
Altre le domande sollevate da Maurizio Cattelan: si può simulare il furto di un’opera che non è mai stata creata? Cattelan, che nel 1991 non era riuscito a completare nessuna opera per una mostra, si reca agitato in questura per denunciare il furto di una “scultura invisibile”, convincendo l’agente di guardia a redigere un verbale. Incorniciato e appeso in galleria, il documento è diventato un’opera concettuale, oltre che una nuova barzelletta sui carabinieri. Posti al limitare di questa prima sezione, due pezzi sono particolarmente interessanti: il tavolino che nel 1987 Martin Kippenberger ricava da un monocromo di Richter e il taglio che Lucio Fontana nel 1966 inferisce a un dipinto floreale di Hisachika Takahashi. In entrambi i casi è stata prelevata e modificata l’opera di un altro artista, una trasformazione dell’immagine altrui tramite un necessario intervento sul suo medium. Se queste appropriazioni non si fossero verificate quegli oggetti particolari non sarebbero stati venduti ai loro collezionisti.
Citare, manipolare, e falsificare sono le parole chiave della seconda sezione: Frode iconografica, che passa dal furto materiale a quello immateriale e pone i problemi dell’originalità e dell’autorialità. A una prima occhiata si rimane colpiti dall’accostamento di dipinti di Raffaello, Picasso, Modigliani e Warhol: bene, nessuno di questi è originale. L’autoritratto del pittore urbinate è replicato da Ingres e il Picasso è copiato da Twombly (cancellando un proprio dipinto); la Marilyn tratta dal film Niagara è ripetuta con qualche modifica da Sturtevant e da Louise Lawler, mentre il finto Modigliani è un quadro che il geniale Pierre Huyghe ha acquistato proprio perché realizzato dal famoso falsario Elmyr de Hory. Ognuna di queste tele ci getta in un caleidoscopio di paternità che, sovrapponendosi, occultano l’artista all’origine dell’opera e al contempo svelano i meccanismi di citazione e ispirazione insiti nella creazione artistica — un vortice già protagonista del readymade L.H.O.O.Q. di Duchamp (il rifacimento della Gioconda, sia nella sua versione baffuta che in quella shaved) —, qui presente in una variante realizzata da Francis Picabia del 1920.
Ma quello del falsario è un mestiere popolare soprattutto per il denaro. Günther Hopfinger e Genpei Akasegawa hanno rispettivamente contraffatto delle banconote tedesche e giapponesi, che certo ammireremmo per la qualità mimetica se non fossimo richiamati dalla morale: è lecito apprezzare quest’operazione? L’ammirazione va indirizzata alle opere o agli artisti? Infatti questi capolavori furono messi in circolo provocando un danno alla società oltre all’arresto per frode di Akasegawa.
Svuotando lo studio londinese di Francis Bacon nel 1996, i curatori della Hugh Lane Gallery di Dublino hanno ritrovato un centinaio di tele sfigurate, in maggioranza ritratti il cui volto era stato asportato dallo stesso artista: Bacon probabilmente non voleva che opere incompiute o insoddisfacenti circolassero dopo la sua morte. Questi visi, la cui effigie è volata via, colpiscono con violenza non minore a quella che generalmente caratterizza l’opera del pittore irlandese; cinque esemplari sono qui esposti per la prima volta.
Lo stesso rapporto assenza/presenza caratterizza le copie 3D che Oliver Laric ha realizzato delle statue confluite alla mostra Serial Classic, curata nel 2015 da Salvatore Settis per la Fondazione Prada. Quelle stesse sculture riguardano il rapporto ambiguo fra originalità e imitazione nell’arte romana e la diffusione di copie come omaggio all’arte dei greci; l’esposizione ne evidenziava la mutevolezza e la percezione democratica. Laric, scannerizzando le opere e distribuendo i file tramite internet, intendeva proseguire la cultura millenaria della copia e permettere a chiunque di stampare dei cloni fedeli da mettere in casa. Purtroppo il progetto è stato abortito: l’artista si è schiantato contro le clausole sul copyright di quelle sculture, detenuto da diverse istituzioni, sicché la democraticità intrinseca all’arte antica risulta impedita dal Codice dei Beni Culturali italiano. Per certi aspetti, la scansione e la riproposizione di idee e forme in contesti diversi da quelli originari può essere considerata una versione contemporanea del collage: questa sezione de L’image volée si conclude appunto con una rassegna di ritagli che, da un secolo a questa parte, mostrano come soprattutto il supporto volatile della carta si presti a ruberie, prevaricazioni e détournement.
Immagini che rubano, allestita nel seminterrato della galleria Nord, è l’ultima parte della mostra. Il luogo è appropriato: qui si riuniscono immagini indiscrete, rubate inconsapevolmente ai soggetti pubblici e privati della società tramite l’occhio voyeuristico e sinistro di macchine fotografiche o telecamere; si ha la sensazione inquietante di camminare in un bunker dei servizi segreti. Blue line (1988) è il titolo di un’altra opera di Baldessari: costituita da una tavola bifronte, il cui spessore è appunto di colore blu, essa reca una doppia riproduzione del Cristo morto (1520-22) di Hans Holbein. Quel capolavoro, forse più di ogni altro, presenta la mortalità di Gesù come fatto biologico e impressionante; mentre ne scrutiamo il rigor mortis siamo osservati da una telecamera, e una volta accorti che il filmato viene riprodotto nella sala adiacente ci sentiamo violati, reificati dall’altrui fruizione e partecipi di una riflessione sui temi della morte e della memoria. Alla parete adiacente è significativamente appesa una fotografia della salma del cancelliere von Bismarck che, morto nel 1898, venne “paparazzato” sul letto funebre da Willy Wilcke e Max Christian Priester. Quest’immagine fu ritenuta scandalosa e inappropriata alla diffusione al punto tale che ancora oggi la famiglia ne custodisce i negativi in cassaforte.
Infine, un campionario di originali oggetti di spionaggio sovietico è presentato ironicamente secondo l’allestimento commerciale per prodotti di consumo alla Triennale di Milano del 1968 (il cui tema era proprio Il grande numero). Questi radar e ricetrasmittenti, reliquie tecnologiche di cui non comprendiamo più le forme né l’esatto utilizzo, sono i precursori degli smartphone di oggi, ovvero di device che tutti noi compriamo nonostante sia risaputo che tramite essi la nostra privacy viene costantemente violata e ogni nostro movimento precisamente localizzato.
A rendere L’image volée una mostra straordinaria non sono solo il grande numero di opere, la loro coerenza nel rispetto del tema o le storie affascinanti che raccontano. La curatela artistica di Demand è un plusvalore tangibile lungo tutto il percorso sia per la scelta dei pezzi che per la loro organizzazione, mentre l’allestimento di Manfred Pernice — scultore dalla poetica affine a quella di Demand — costituisce un esperimento che supera definitivamente l’ormai stanco white cube. Colori pastello, pareti lasciate incompiute e volumi aperti avvolgono la mostra come un packaging appena scartato o uno scatolone da trasloco, conferendo al contenuto un senso più profondo e provocando nello spettatore il sottile desiderio di prelevare qualcosa.
L’image volée, a cura di Thomas Demand, Fondazione Prada, fino al 28 agosto.
Immagine di copertina: L’image volée, exhibition view. Da sinistra a destra: Cornice vuota del Ritratto del Dottor Gachet (1890) di Vincent van Gogh; John Baldessari, “L’image volée” poster (2015-2016); Stolen Pictures (1948), Brochure. Foto Delfino Sisto Legnani Studio. Courtesy Fondazione Prada.