La vita di Alan Turing, inventore del computer, tra leggenda, dramma e commedia. In Imitation Game è tutto assai british, ma è un film riuscito solo a metà
L’arte del biopic non è mai semplice. È un genere scomodo, sospeso tra la banalità di una vita ordinaria dietro alla leggenda, le controversie di personaggi (pardon, persone) dalle mille sfumature, e il rischio concreto di un’agiografia buonista e scontata per non scomodare né scontentare nessuno. Spesso e volentieri, però, l’ammiccamento allo spettatore in sala, se eccessivo per qualità o frequenza, nel migliore dei casi disorienta e nel peggiore infastidisce. Imitation Game di Morten Tydlum, con la star di Sherlock Benedict Cumberbatch a vestire i panni dell’eccentrico matematico inglese Alan Turing (inventore del primo computer della storia, l’unico capace di decifrare il mitico codice Enigma con cui erano scritti i messaggi criptati nazisti durante la guerra), nonostante le 5 nomination ai Golden Globe e il profumo di Oscar, è un film riuscito a metà.
Corre sugli stessi binari di Il discorso del re, nel continuo contrappunto tra cronaca, storica e commedia all’inglese, tra impegno e mainstream, ma con tutt’altra efficacia. Quello che nel film di Hooper era un gioco sapiente di alleggerimento, qui pare piuttosto indecisione, o scelta di non scegliere, complice una regia debole e una sceneggiatura dalle idee a tratti confuse, anche perché troppo preoccupata di piacere.
Non è un film propriamente drammatico, perché gli aspetti più seri della vicenda, come la scelta della decodificazione una tantum del codice per non rivelarne la scoperta al nemico, (rinunciando così a salvare varie navi inglesi dagli attacchi degli U-Boot tedeschi), vengono appena accennati, e sdrammatizzati in fretta.
La stessa condanna di Turing per il reato (nel codice britannico di allora) di omosessualità e le presunte “cure” obbligate che lo spingeranno al suicidio (con una mela intrisa di cianuro di potassio), sono temi che Imitation Game affronta soltanto di striscio, preferendo soffermarsi sulla relazione, un po’ romanzata, del matematico con il suo team e con la collega Joan Clarke, interpretata dall’altra star in cartellone, una stralunata Keira Knightley.
Ma non è nemmeno una commedia, perché a battute efficaci e dialoghi ben costruiti si alternano inaspettati momenti “seri” di una banalità disarmante, didascalici fin nel commento sonoro. Ed è proprio una didascalia, in chiusura di pellicola, a liquidare in poche righe la tragica fine del protagonista, ricordando in un sussulto d’impegno, improvvisato e tardivo, le discriminazioni sessuali a lungo avallate dal governo britannico.
Cosa si salva? Valgono da sole il prezzo del biglietto le eccellenti interpretazioni dei due attori principali, il nevrotico, impacciato Cumberbatch e la sua controparte, il carismatico leader del gruppo Matthew Goode (Match Point, Watchmen, A Single Man). Buona, anche se a tratti macchiettistica, la prova di Keira Knightley – in un’improbabile versione biondo polenta – e del sempre convincente Mark Strong, mentre fiacca e pretestuosa risulta la caratterizzazione dell’unico personaggio di fantasia, l’inebetito detective Nock (Rory Kinnear, 007 Quantum of Solace e Skyfall), con impermeabile e cappello d’ordinanza, a cui Turing racconta l’intera vicenda nel corso di un interrogatorio.
Imitation Game non è comunque un fallimento. Però è un film leggero, quasi ruffiano, in cui le prove degli interpreti non bastamo a lasciare davvero il segno, oltre l’appeal hollywoodiano del soggetto. Allo spettatore resta la sensazione di aver assaggiato un frutto maturo solo a metà.