Al Piccolo è in scena “Edificio 3. Storia di un intento assurdo” dell’argentino Claudio Tolcachir con un cast italiano
È una sensazione di tenero squallore quella che suscita la scenografia di Edificio 3 dell’argentino Claudio Tolcachir (Buenos Aires, 46 anni), spettacolo prodotto dal Piccolo e in scena al teatro Studio Melato fino al 7 novembre. Si tratta di un labirinto di librerie e scrivanie polverose e stipate di faldoni, che lo scorso inverno è stato installato simbolicamente in Largo Greppi, davanti al Teatro Strehler, dopo che la seconda ondata aveva impedito allo spettacolo di debuttare. Quasi un anno dopo, l’autore-regista e la compagnia – tutta italiana: Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi, Emanuele Turetta – si prendono la loro rivincita con oltre un mese di repliche, sempre applauditissime, con anche cinque o sei chiamate a sera.
Non c’è dubbio che lo stile di Tolcachir incontri il gusto del pubblico italiano, in particolare di quello del Piccolo, dove negli ultimi anni sono stati presentati con successo altri due testi. Il caso della famiglia Coleman, il suo primo lavoro del 2005 che ha girato 22 paesi, e soprattutto Emilia, in ben due edizioni: una argentina e una italiana prodotta dal Teatro di Roma con un cast guidato da Giulia Lazzarini. Quanto a Edificio 3, il testo è del 2008 e nel suo sottotitolo, “Storia di un intento assurdo”, l’autore sembra anticipare l’atmosfera che ha in mente, derivata – come lui stesso ha dichiarato – dai drammi di Čechov e Beckett.
Tolcachir è ritenuto oggi un classico del teatro contemporaneo. Il suo stile, sempre in equilibrio tra commedia e tragedia, ha una evidente matrice da laboratorio, da teatro indipendente. Come in effetti è il caso del suo Timbre4, letteralmente “campanello 4”, che è dove bisogna suonare per accedere al teatro che ha fondato in un appartamento di ringhiera alla periferia di Buenos Aires – lui abita al 3. La sua è una delle numerose sale indipendenti nate in Argentina dopo la crisi economica del 2001.
Come spiega Lorenzo Donati nel programma di sala, nel periodo che seguì allo sfrenato neoliberismo anni novanta, giovani aspiranti attori e registi hanno avuto sempre più difficoltà a entrare nei circuiti teatrali ufficiali, sia quelli commerciali sia quelli più blasonati – si pensi ad esempio ai lavori di Daniel Veronese e di Rafael Spregelburd, il secondo assai noto in Italia perché portato in scena da Luca Ronconi nei suoi ultimi anni. Questo ha obbligato diversi gruppi a sistemarsi in spazi improvvisati e spesso sgangherati dove organizzare incontri, scuole di recitazione e persino spettacoli veri e propri.
Come altri testi di Tolcachir anche Edificio 3 tende al melodramma, ma sempre senza patetismi: discorsi quotidiani e situazioni di apparente banalità scavano nell’intimità dei personaggi senza che ce ne si accorga. Se ne Il caso della famiglia Coleman e in Emilia l’autore si concentrava sui legami famigliari, al centro di questo lavoro stanno invece le dinamiche di un ufficio. Non un ufficio movimentato e stressante, ma un luogo ormai dismesso e semi-abbandonato, dove tre colleghi si ritrovano a passare insieme la maggior parte del loro tempo svolgendo un lavoro non meglio identificato e ignorando quasi tutto l’uno dell’altro.
Nel corso dei 90 minuti dello spettacolo emergono segreti, speranze e illusioni di ciascuno, come se questo spazio dimenticato, con la luce che ogni tanto salta, fosse in realtà un luogo della coscienza. C’è Moni (Picello), la collega impicciona che non riesce a non intervenire nelle faccende degli altri, e che si ritroverà a dormire in ufficio dopo aver perso la casa. Sandra (Senesi), più sofisticata e di mondo ma ossessionata dal desiderio di avere un figlio, al punto che arriva a inventarsi l’esistenza di un marito. Ettore (Lisma), che deve fare i conti con la morte di una madre ingombrante, oltre che con imprevedibili complicazioni sentimentali. Parallelamente si scorge la storia di una giovane coppia in crisi, Sofia e Manuel (Piccioni e Turetta), che solo nel finale si vedrà, a dire il vero un po’ confusamente, in che modo si inserisce nelle vicende dell’ufficio.
Difficile non empatizzare con i protagonisti di questo Aspettando Godot aziendale, la cui simpatica inettitudine viene portata da Tolcachir al limite con abilità, senza mai cadere nella farsa. Un esempio su tutti è la esilarante, lunghissima scena della lettera in cui Ettore scrive il discorso commemorativo per la madre con l’aiuto delle due colleghe.
Il merito di questo equilibrio va agli attori, soprattutto Picello e Lisma, entrambi portatori in scena di un lirismo nevrotico capace di divertire e commuovere. Tolcachir ha richiesto una recitazione in sottrazione, molto adatta a una commedia umana da impiegati statali dove in sostanza non accade nulla, la linea telefonica viene staccata e tutto si chiude nel buio di un ufficio relegato alla fine del mondo.
Tra i momenti che rimangono impressi c’è senza dubbio il passaggio corale, in cui i cinque personaggi intrecciano le loro voci in un dialogo in simultanea che trascende spazio e tempo, in cui i dubbi di ciascuno trovano (o non trovano) risposta in quelli degli altri.
Una scena in cui ogni naturalismo, logica e verosimiglianza vengono superati dalla verità teatrale. In questa atmosfera evanescente e sempre in bilico stona un po’ il colpo di scena finale, con tanto di coltelli estratti e minacce di morte. Anche se in fondo non bisogna dimenticare che persino tra i drammi di Čechov, così evanescenti e astratti, a un certo punto si spara: in Zio Vanja, ovviamente sempre mancando il bersaglio. Perché gli inetti di ieri e di oggi non possono che assomigliarsi.