In lode a Giulia Lazzarini, attraverso Sant’Ambrogio

In Teatro

Una Lazzarini monumentale si presta ad essere voce – popolare e sacra allo stesso tempo, della “Sinfonia ambrosiana”, che LabArca dedica al suo vescovo e alla città di Milano in vista del Natale

“I tempi sono cattivi. I tempi sono difficili. I tempi sono pesanti. Vivete bene, e muterete i tempi”. Arriva come rivolto all’oggi ma da una distanza di quasi due millenni, da un trecento senza migliaia, il monito di Ambrogio, vescovo di Milano, che risuona nelle vestigia della sua Milano quasi coeva e al contempo tra le mura di un’istituzione che ne raccoglie l’eredità, come l’Università Cattolica. Qui, il teatro LabArca ha scelto di portare la sua Sinfonia Ambrosiana. Pensata per essere un omaggio al più suo dei vescovi, nel giorno che la città gli consacra, si è rivelata un’efficace occasione per prepararsi alle feste natalizie, riportando il sacro alla forza della sua espressione. L’occasione l’hanno data le condizioni di salute – felicemente ristabilite – del suo centro nevralgico, una leggenda del teatro non certo solo milanese ma che anche in questo testo di Egidio Bertazzoni in Milano riconosce e rivendica la propria appartenenza: Giulia Lazzarini.

Se il protagonista del testo è Ambrogio, è altresì vero che la protagonista indiscussa di quel che avviene nell’atmosfera intima e raccolta dell’antica ghiacciaia dell’Ateneo è lei, e la vitalità indiscussa che, nei panni di una contadina del Trecento, la sua arte le consente di dimostrare sforzando solo quanto occorre un corpo che ha attraversato, e cambiato, la storia del teatro italiano. A lei, al suo milanese – o forse padano, che però suona indiscutibilmente meneghino ad orecchie inavvertite come quelle di chi Milano la vive nel terzo millennio – sembrano, doverosamente, messe a servizio le parole delle meditazioni spirituali di Ambrogio, declamate con rigore da Cinzia Spanò, e la sua lingua, se non altro quella ufficiale, il latino, restituito anche nel suo respiro musicale da Stefano Rombolà. Che si fanno eco – chiarificandosi e accostandosi, proprio come accade nella corale ambrosiana scritta dal vescovo stesso, che arriva in scena incontrandosi con gli strumenti del presente. e un saxofono, suonato con grazia da Giacomo Bertazzoni, che un sintetizzatore digitale moltiplica arricchendolo a sua volta di echi. Anche la messa in scena, orchestrata saggiamente dallo stesso Bertazzoni, pur apparendo a tratti un po’ compartimentata, procede mescolando con saggezza rimandi concreti e trascendenza.

Così è, del resto, la spiritualità antica, come stanno a dimostrare testi come il Cantico dei Cantici, dove la devozione si muove tutta su un registro quantomai terreno. Così qui, sono imperativi come “bibe”, “bevi”, a ritmare le invocazioni di Ambrogio, e gesti e ammirazioni tutte umane della contadina a restituirne il senso, tutto terreno, e il potere iconico. Tanto è vero che a un certo punto anche la mediazione dell’italiano può venire meno, lasciando spazio alla voce, abbagliante nella sua lieve sincerità, della stessa Lazzarini. A dimostrare, qualora ancora ce ne fosse ancora bisogno, che anche il teatro è sacro, proprio nel suo profondo e intimo legame con la vita. Se dunque questa Sinfonia potrebbe forse (perdoneranno i puristi delle forme antiche) rientrare nella grammatica della laude, di certo in scena consente a chi guarda di farla diventare una lode alla sua stessa interprete, a cui basta un viso reso ragazzo dal talento per renderla memorabile.

La dimostrazione – come di poche, delle più grandi – che la scena restituisce alle sue migliori interpreti tutta la grandezza della loro statura artistica. (difficile non pensare, stringendo le mani generose e piene di vigore di Lazzarini, alla Franca Valeri che anche negli anni della maturità, lo racconta Lella Costa in un gustoso aneddoto, ritornava sulla scena la ragazza di Milano che è sempre stata). Ma a rendere significativa questa serata, molto al di là della sua dimensione confessionale, è la capacità di fare proprio il mandato dello stesso Ambrogio a “Non restare prigionieri di una tradizione che opprime” ma piuttosto, anche attraverso il teatro, che è una delle sue più felici e profonde declinazioni, a “fare il sacro, che è sempre sovversione dell’ordine esistente”, anche – forse soprattutto – quando passa dalle fascinazioni di una donna di popolo che guarda il giovane vescovo che il popolo ha voluto tale con occhi, anche in scena, pieni di luce.

Senza soffermarsi mai nella polvere del passato perchè – è sempre Ambrogio a parlare, e quanto colpisce saperlo, certa “memoria uccide, noi siamo nella vita”, Che è quindi capace di raccontare anche la tragedia di tempi come quelli, dove la fame si fa più forte della pietà, o dove un vescovo paesano diventa il cuore di una città. Ma anche forse di oggi, quando abbiamo forse più che mai bisogno di ricordare di una terra “fatta per tutti, gli sciuri e i pueritt”, e immaginarci attraverso il teatro come corpo santo, che, pure è tutto una piaga “eppure effluiva un vento”, che passa attraverso le voci migliori che si sono prestate a raccontarlo.

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