«Ѐ uno spettacolo in cui sembra c’entrare tutto eppure non c’entra nulla». Abbiamo intervistato i protagonisti che ci hanno raccontato come nasce uno spettacolo di Emma Dante e abbiamo ripercorso a ritroso la favola noir di Basile
La Scortecata è uno di quegli spettacoli che fa attraversare momenti contrastanti, è una narrazione drammaturgica che ti tiene in sospeso, specie se non ti convince fin da subito.
Per un semplice motivo: l’hai già visto. E non a caso La Scortecata è stato definito più volte una summa della poetica di Emma Dante. In fondo si sa, un/una regista alla fine non fa che raccontare sempre la stessa storia e a volte vien da chiedersi quale sia quella che si cela dietro la sua arte.
C’è chi si svela e chi no. Chi denuncia, chi ha saputo ritagliarsi una fetta di mercato di pubblico fidelizzato e riuscire a non essere necessariamente “straniero” in patria, almeno non del tutto. Emma Dante è anche un’ambasciatrice della sua terra d’origine, basti osservare per rendersene conto il senso di comunità che pervade gli spettatori che accorrono per applaudirla. E’ avvenuto a pochi giorni dopo la prima nella sede storica del Piccolo Teatro di Milano.
Occorre ricordare che La Scortecata in realtà è una ripresa. La pièce aveva debuttato nel 2017 al sessantesimo Festival di Spoleto ed era stata selezionata insieme alla produzione di Cantieri Teatrali Koreja, Operastracci, per rappresentare l’ Italia all’ Hangzhou Contemporary Theatre Festival, nella provincia dello Zhejiang.
Il pre-testo dello spettacolo è il secentesco barocco Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, una raccolta di fiabe che vengono narrate nell’arco di cinque giornate per effetto di un desiderio scaturito da una magia.
La cornice narrativa della successione di racconti in cui compare per la prima volta anche il personaggio di Cenerentola è la maledizione inflitta alla figlia del Re di Vallepelosa, la sempre triste Zora. Un giorno accade alla fanciulla di assistere da una finestra a un diverbio tra un’anziana signora e un paggio.
Il gesto osceno della donna rivolta al giovane suscita l’ilarità di Zora che dopo tanto tempo ritorna a ridere, persino in maniera fragorosa. Una reazione che scatena la rabbia della vecchia che si sente presa in giro. Punizione per l’impavida figlia del re sarà sposare Tadeo, principe di Caporotondo. Nulla di speciale, se non fosse che il principe giace da tempo inerme in un sepolcro.
Solo colei che sarà in grado di ritrovare Tadeo e di riempire una brocca con le proprie lacrime, potrà ridestarlo e avere il diritto di sposarlo. Dopo anni di fatiche, in un momento di stanchezza Zora si addormenta e una schiava ne approfitta per finire di riempire la brocca al posto della predestinata. Tadeo si risveglia e sposa la donna che è stata per ultima in grado di salvarlo.
Destatasi Zora capisce l’inganno, decide di trasferirsi in un’abitazione vicino alla coppia illegittima e grazie a un sortilegio fa nascere nella schiava, ormai sposata al principe, il desiderio di ascoltare racconti. Per cinque giorni, dieci popolane scelte dal Principe si avvicenderanno per narrare storie alla moglie. Il quinto giorno si presenta Zora, illustra le sue vicissitudini, incanta la platea e il principe capisce l’inganno. Tadeo condanna la moglie e si ricongiunge in matrimonio con Zora.
La scortecata è la decima storia, l’ultima che viene esposta nel corso della prima giornata.
Invidia e rivalità scaturiscono tra anziane sorelle quando il Re si innamora perdutamente della voce di una delle due. Dopo una notte di passione al buio, Sua Maestà una volta svelato il reale aspetto fisico della donna decide di buttare la sua “amata” dalla finestra. L’anziana rimasta appesa ad un albero viene salvata da una fata che le restituisce gioventù e bellezza. All’altra non resta che l’ultimo disperato drammatico tentativo di farsi “scortecare”, perché sotto la pelle vecchia potrebbe rinascere rigenerandosi quella nuova.
Ottimi interpreti Carmine Maringola e Salvatore D’Onofrio (applauditi anche in Cani di Bancata, storico spettacolo di denuncia della Compagnia, Maringola ne aveva firmato le scene insieme alla regista palermitana) senza soluzione di continuità danno vita, alternandosi, a tutti i personaggi della vicenda. Due seggiole, un piccolo castello azzurrognolo riprodotto sulla falsariga di quello di Neuschwanstein, un baule, una porta senza anta insieme alle luci di Cristian Zucaro gli unici elementi scenografici a scolpire lo spazio scenico.
Sottovesti lise e scollate, calze elastiche, reggicalze lasse, retina sulla nuca, ciabatte, i pochi costumi di scena da cui gli interpreti sono partiti per costruire il personaggio oltre al gesto dell’atto del succhiare e allisciare il dito mignolo. Episodio presente nella storia di Basile, centrale nella drammaturgia della Dante. Metafore gestuali di erotismo e autoerotismo grottesco, a tratti crudo, ripetuto, accelerato – tema ricorrente negli allestimenti della Dante – si fondono in questa pièce con il desiderio di essere persone appettibili, carnali, ancora vive, pulsanti. Ultimo tentativo primordiale di resilienza alla noia, alla povertà, alla solitudine, al tempo.
Ancora una volta due uomini a rappresentare un mondo femminile che vuol farsi sentito universale. Il riferimento culturale riesumato è la tradizione teatrale elisabettiana ( epoca in cui alle donne era vietato recitare così come nell’Antica Grecia). Per l’uso in scena del corpo degli interpreti, molti hanno pensato a un costante riferimento alla Commedia dell’Arte, per il rapporto tra le sorelle a Beckett, ma in realtà niente è stato frutto di una ricerca pensata . << Emma prima ti veste, devi iniziare a muoverti, a prendere l’abitudine con quello che hai addosso, poi inizi a giocarci, iniziano le prime improvvisazioni – spiega D’Onofrio – Non c’è stato uno studio della Commedia dell’Arte, nemmeno il pensiero razionale di rifarsi a Beckett. Forse – aggiunge – tutto il patrimonio culturale e teatrale che si è creato negli anni in qualche modo si è trasmesso ed è giunto a noi quasi per un processo di osmosi genetica >>.
Alla domanda se ci siano anche riferimenti politici nella scelta dell’allestimento de La Scortecata ( in molti hanno ravvisato Brecht) sempre D’Onofrio nicchia, poi sicuro asserisce: «Siamo partiti da Basile, se qualcosa c’è non è voluto, ragionato, pensato – prende un attimo di fiato, poi chiosa sorridendo – La verità è che lo spettacolo è di chi lo vede. Ognuno ci vede un po’ quello che vuole».
Nel finale il pubblico risponde ridendo di gran gusto alle battute più basse come da commedia che si rispetti, un senso di euforia permea l’aria, quei due interpreti li segui, anche se non capisci tutte le parole del cunto, ti emozioni sulle note delle belle musiche, in particolar modo su quelle di Pino Daniele, quando senti una battuta come «mastica e sputa» pensi a De Andrè, è inevitabile. Ci si ostina a cercare, a ritrovare riferimenti, l’apparizione di una parrucca rossa su portamento statuario in via Rovello potrebbe anche essere letto come omaggio a Giorgio Strehler. Qualcuno all’uscita loda estasiato le luci esclamando «un quadro di Caravaggio».
Ѐ uno di quegli spettacoli in cui tutto sembra c’entrare eppure non c’entra nulla. Il finale giocato sui contrasti è di quelli che non ti aspetti. Vale tutto il viaggio. Una volta usciti di sala capita di ripercorrere lo spettacolo nella mente a ritroso e apprezzarne di più la costruzione. Può accadere, soprattutto con le favole noir.