Il quinto episodio della saga dell’archeologo in guerra coi nazisti, interpretato (con tanta buona volontà) da Harrison Ford mostra i limiti della Hollywood d’oggi. Riproporre all’infinito personaggi e formule di grande successo, dilatando all’infinito i tempi narrativi e le scene madri, porta autori e pubblico a una grande stanchezza. Non aiutano qui nè la regia di James Mangold (“erede”, nella serie, di Spielberg) nè una protagonista legnosa, Phoebe Waller-Bridge, inserita in un cast di professionisti (Mikkelsen, Jones, Banderas) che fanno del loro meglio per vivificare caratteri già troppo visti
Nella lunga sequenza di apertura di Indiana Jones e l’Ultima crociata, il terzo e miglior capitolo di sempre nella saga dell’archeologo con frusta e fedora, al termine della classica caccia alla reliquia antica il nostro eroe è messo alle strette: malmenato e prigioniero, è obbligato a restituire il prezioso oggetto sottratto ai biechi trafficanti. Eppure, sprezzante del pericolo, esclama a testa alta la celeberrima battuta “quella dovrebbe stare in un museo!”, solo per sentirsi rispondere a tono dal cattivo di turno: “e così lei!”.
Basterebbe questo breve scambio per descrivere lo stato d’animo dei fan storici al termine della proiezione di Indiana Jones e il Quadrante del Destino, quinto episodio nell’epopea del personaggio nato dalla mente di George Lucas e portato sul grande schermo quattro volte dall’amico fraterno Steven Spielberg e una, quest’ultima, da James Mangold. Da un lato è ancora innegabile la voglia di sospendere nuovamente ogni incredulità, per lasciarsi trasportare tra mete esotiche ed epoche lontane, in compagnia di una delle figure più iconiche nella storia del cinema del ventesimo secolo. Dall’altro, però, è altrettanto impossibile non constatare che il tempo passa per tutti, protagonisti, interpreti e persino filoni narrativi: forse, dopo questo ennesimo giro a vuoto (seppur farcito di piroette, salti nel vuoto e chi più ne ha più ne metta), è davvero arrivato il momento di appendere il cappello al chiodo.
Prigioniero dell’inesorabile loop temporale che ha colpito Hollywood negli ultimi anni, in un costante e autodistruttivo riciclo dei grandi miti del bel cinema che fu, persino il buon vecchio (in tutti i sensi) Harrison Ford può ben poco, nonostante la più che evidente buona volontà. Trasportato a forza per evidenti ragioni di età dalla Seconda Guerra Mondiale, efficacissima ambientazione di gioventù, al finire degli anni ’60, le sue scazzottate e fughe a cavallo sono anacronistiche tanto quanto l’eterno nemico nazista.
Eppure, la colpa principale del film di Mangold, che dopo l’ottimo Logan – The Wolverine e il successo di critica con Le Mans ’66 – La grande sfida sembrava finalmente aver ingranato la marcia giusta, non è nemmeno nel cercare di riprodurre pedissequamente gli archetipi che avevano reso grandissima la trilogia originale. Al contrario: come già era successo nel precedente e pasticciatissimo Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo, a condannare anche questo nuovo tentativo è proprio la voglia di “svecchiare” il repertorio, finendo inesorabilmente per strafare, come chi infila a tutto gas la strada sbagliata. Gli errori sono sempre gli stessi: scene d’inseguimento inutilmente elaborate e interminabili, comprimari piatti e irritanti per caratterizzazione e interpretazione, e una trama farcita all’inverosimile di passaggi a vuoto per arrivare alle due ore e mezza, durata standard dell’odierno blockbuster hollywoodiano.
Così capita che, nella gigantesca centrifuga senza sosta che è la sceneggiatura de Il Quadrante del Destino, ci finiscano anche un antagonista interessante come l’archeologo malvagio (il solito, cattivissimo Mads Mikkelsen), una comparsa d’eccezione come Antonio Banderas, il redivivo John Rhys-Davies, il buon caratterista Toby Jones e persino la pluripremiata Phoebe Waller-Bridge, che sarà pure una sceneggiatrice e regista piena di talento come dicono (tre Emmy, due Golden Globe e svariati altri riconoscimenti per la serie Fleabag), ma qui, nei panni della co-protagonista, è decisamente inadeguata, oltre che francamente un po’ antipatica. Intorno a loro, al ritmo dell’immancabile linea tratteggiata sulla cartina geografica, si srotolano location pittoresche penalizzate da una regia schizofrenica, pillole di archeologia che paiono supercazzole e un finale assolutamente delirante, a metà tra una scena di Superfantozzi e una gag dei Monty Python.
Peccato, perché sarebbe bastato farla più semplice, mantenendo l’atmosfera e lo spirito dei primi film, capaci di emozionare pur con effetti speciali ridotti all’osso, trame lineari e scene d’azione lunghe il giusto. A voler per forza di cose continuare a dare nuova forma ai classici degli anni ’80 e ’90, è questa la sostanza da cui a Hollywood dovrebbero imparare a ripartire. Per rendere una volta per tutte giustizia a personaggi e generi senza tempo, e per iniziare finalmente a crearne di nuovi.
Indiana Jones e il Quadrante del destino di James Mangold, con Harrison Ford, Mads Mikkelsen, Phoebe Waller-Bridge, Antonio Banderas, John Rhys-Davies, Toby Jones.