Per il secondo anno consecutivo la rassegna di musica elettronica Inner Spaces ha preso quota al San Fedele, con un concerto che ha registrato il tutto esaurito
Fa sempre piacere sapere che qualcuno in città consenta al pubblico milanese di poter ascoltare musica elettronica di ricerca, evitandogli così impegnative trasferte a Londra, a Parigi o a Berlino. S/V/N è quella realtà che a Milano supporta la cultura elettronica, la importa dall’Europa e dal resto del mondo, sostiene i rappresentanti locali, facendoci ballare ma anche mettendoci in ascolto delle manifestazioni musicali più vicine alla ricerca o, come spesso accade, fornendoci la possibilità di scoprire ibridi culturali, difficilmente inquadrabili in generi e territori strettamente definibili.
Lunedì 25 gennaio S/V/N ha inaugurato all’Auditorium San Fedele, un luogo oramai noto per l’attenzione che rivolge alla contemporaneità musicale, la seconda stagione di Inner Spaces, durante la quale artisti italiani e stranieri dediti alla ricerca in campo elettronico si confrontano con l’architettura sonora dell’Auditorium. A dare un contributo alla fama della location è, infatti, l’unico acusmonium Sator costruito in Italia – disegnato da Eraldo Bocca – una sorta di panopticon sonoro le cui decine di speaker, ciascuno dotato di differenti specifiche tecniche, sono distribuite lungo tre cerchi concentrici e circondano la platea superando le limitazioni della stereofonia per avvicinare l’ascolto alla tridimensionalità (una realtà virtuale a 360° gradi del suono, per intenderci).
Ho tanto parlato di contemporaneità musicale e già devo contraddirmi: le opere spazializzate dall’acusmonium all’inaugurazione di Inner Spaces 2016 – la cui regia acusmatica è curata da Giovanni Cospito e Dante Tanzi, oramai residents dell’ “orchestra di altoparlanti” – sono Riverrun di Barry Truax e De natura sonorum di Bernard Parmégiani, l’una vecchia di quarant’anni, l’altra di cinquantuno.
Eppure, chi conosce un po’ di storia dell’elettronica dell’ultimo mezzo secolo XX – e in mezzo al pubblico vedo molti studenti delle scuole di elettronica della città – avrà sentito parlare del De natura sonorum e chi non conosce Barry Truax conoscerà almeno per sentito dire la sintesi granulare, tecnologia che ha concesso la composizione di Riverrun. Allora sarà facile giustificare l’invecchiato repertorio scelto ad inaugurare la rassegna affiancando ai due titoli l’appellativo di opere storiche di grandi maestri. Fortunatamente l’acosmonium regala un nuovo colore alle due opere, che con lo stereo della mia camera da letto suonano tediose (provare per credere) come quasi ogni nastro inciso mezzo secolo or sono, per esempio, dallo Studio di Fonologia della RAI – per quanto interessanti dal punto di visto storico, tali opere risultano, infatti, ormai fortemente invecchiate all’udito dei moderni.
Su Riverrun, metaforico corso di un fiume di grani sintetizzati e gradualmente layerati dall’allora innovativa DMX 1000 Digital Signal Processor (macchina per ricchi che sfruttava la rivoluzione del digitale per compiere la sintesi granulare in tempo reale) vorrei non dire altro, forte dell’insoddisfazione di un pubblico tanto variegato – gli studenti poc’anzi menzionati, artisti visivi, sperimentatori musicali, cultori della techno in abiti scuri, l’assessore Filippo del Corno – quanto annoiato dal reperto storico.
Risultato più interessante emerge dalla spazializzazione effettuata sull’opera di Parmégiani, già di per sé attenta alla definizione di una profondità virtuale – nel primo movimento della suite, per esempio, un delay di pochi millisecondi sposta il suono tra gli speaker left e right dando l’illusione di uno spazio diffuso. Differentemente dall’opera di Truax, De natura sonorum sorge dal mix di segnali elettronicamente generati e suoni campionati e opportunamente editati secondo il buon insegnamento di Pierre Schaeffer, padre della musica concreta che dei campioni faceva il proprio unico strumento.
Rapidi eventi sonori – per lo più rumori metallici – coprono lo spazio tridimensionale dell’acusmonium con transienti d’attacco rapidi e incisivi e punteggiano persistenti droni sintetici dalle basse frequenze, determinando la vibrazione di alcune superfici della sala e a tratti anche il terrore dei miei vicini di posto. I diversi movimenti dell’opera di Parmégiani indagano la relazione tra sample e synth, oggetti sonori e segnali elettronici, restituendone un’immagine omogenea.
La regia dell’acusmonium regala al De natura sonorum nuova linfa, consentendomi di annunciare con soddisfazione la rinascita dell’opera del compianto compositore francese (morto nel 2013). L’ascolto in 3D è accompagnato con efficacia dall’intervento visivo di Andrew Quinn che con un video mapping sfrutta le profondità della nicchia sul fondo del palco per proiettare e dirigere in live astratte figure digitali disturbate dall’insorgere degli eventi sonori.
Dopo poco più di un’impegnativa ora di ascolto, la platea eterogenea abbandona dissociata e soddisfatta l’esperienza della tridimensionalità elettronica. A questo punto, posso dichiarare sinceramente che aspetto con una certa curiosità i prossimi live di Inner Spaces: Francisco López, Bellows, Robert Lippok, Valerio Tricoli, R/S, Oren Ambarchi e Thomas Brinkmann, tutti artisti fortunatamente ancora vivi e proficuamente attivi nella scena dell’elettronica di ricerca.