Responsabilità, compiti, funzione, ruolo: la scuola disegna il mondo di domani, ma segna profondamente anche la società di oggi. Roberto Contu indaga in presa diretta la civiltà del dubbio educativo, e costruisce un manifesto umano, che parla come un amico e induce a ragionare sulla fiducia sociale.
Il più e il meglio come perimetro programmatico, e per argomento un campo minato da oltre vent’anni di bombardamenti pregiudiziali.
Questo è Insegnanti, l’ultimo lavoro di Roberto Contu, pubblicato da Aguaplano nella collana Glitch.
Il fatto che Glitch sia una collana che risale all’indietro il corso del meccanismo editoriale (ricerca, cioè, in rete i migliori contenuti per trasformarli in libro) dà conto della singolare forma di scrittura di questo testo: un libro che non è propriamente un saggio, ma ne ha tutta l’autorevolezza; che non è solamente un diario o una raccolta di appunti perché le riflessioni sono organizzate per temi, e per temi procedono con sistema finché, alla fine di un corpo snello, di registro sereno e di ragionamento implacabile, non ci si rende conto di che cosa sia questo libro.
E se, per forma e argomentazione (una scrittura privata ma pensata per stare in pubblico), gli antecedenti riportano ad antenati illustri e potentemente vicini – dalle Lettere copernicane di Galileo, al Seneca delle epistole morali, fino alla Lettera sulla Felicità di Epicuro – non sono che la testimonianza che, molto prima di Internet, il meccanismo di diffusione via rete umana di ragionamenti al fine di produrre altri ragionamenti è sempre stato un territorio molto frequentato.
Cosa fa, dunque, in questo libro, Roberto Contu, che insegna lettere nella scuola secondaria superiore, si occupa in rete di didattica della letteratura ed è l’autore de Il vangelo secondo il ragazzo (Castelvecchi)? Si pone implicitamente un compito che è insieme etico e civile: la ridefinizione di un immaginario, fatta partendo da dentro.
Porsi il mondo della scuola come campo di indagine, cioè un territorio sul quale si è consumata una delle più potenti opere di smantellamento della credibilità negli ultimi due decenni, vuol dire non avere paura di andare al cuore del problema, sostanziati da una profonda analisi della propria esperienza.
E questo sono, queste centotrenta pagine di coraggiosa indagine: un documento in presa diretta di quella parte – tanta – di buono e di alto che scorre quotidianamente nelle aule scolastiche e nei pomeriggi degli insegnanti, che raramente trova voci per essere raccontata.
Tuttavia (e questo è uno degli aspetti più apprezzabili di questo libro) non c’è niente di quella retorica deteriore che è l’altra faccia de “la scuola fa schifo” tout court, e cioè l’impostazione missionaria del “buono a tutti i costi” che rischia spesso di trasformarsi a sua volta in cliché.
Insegnanti è prima di tutto un libro di crisi, che interroga la crisi secondo canoni dialettici che ci vengono da un tempo lontano e tremendamente attuale, e che non ha paura di affrontare il dubbio.
È proprio attraverso il dubbio, infatti, che si ridefiniscono i termini di un problema, a partire, per esempio, dal ruolo dell’insegnante: dalla sua funzione, dalla sua responsabilità, dai suoi compiti e dal suo obiettivo globale.
Ecco dunque che, con estremo garbo, Roberto Contu rivela, partendo da sé, il senso di una esperienza che è comune tra chi insegna, e sulla cui necessità e sul motivo profondo occorre davvero fermarsi: la paura. L’insegnante ha paura. Ed ha ragione di averne. Perché, quando ci si fermi a pensare a quanto è il peso specifico del lavoro di un insegnante, bisogna aver paura:
“Come aver scarabocchiato con pochi tratti il progetto di una cattedrale. Per ogni ragazzo la costruzione di una cattedrale, ogni mattina, oltre duecento mattine all’anno. centinaia di ragazzi, per anni, per una vita professionale intera. Fa spavento. Fa spavento perché spaventa pensare a quanta vita passi dentro una scuola, a quanto di pulsante, di irrequieto, di moto perenne delle menti e dei corpi si concentri dentro una classe. Mi dico che sono questi i confini tracciati dalla mia fifa di insegnante”.
e, ancora:
“Alla base della possibilità di trasmettere e rendere materia viva un autore e la sua opera, tanto più in un contesto problematico, c’è la comprensione approfondita di quell’autore e di quell’opera fino a sentirli propri, tali da poterli far transitare quasi per osmosi ai destinatari del sapere. Questa affermazione, apparentemente banale, andrebbe valutata meglio se si inizia a considerare che non è affatto detto che gli insegnanti, anche dopo anni di formazione e poi di scuola, possiedano bene la materia del loro insegnare, se non altro per la sua vastità, e che se anche quel possesso sia consolidato, vada ricontestualizzato e rivitalizzato all’infinito, a ragione del mutare perenne dei destinatari di quel sapere. Da questo punto di vista l’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato”.
In seconda analisi, occorre dunque ragionare su ciò che serve per affrontare il compito del sapere, e anche in questo caso Roberto Contu ha coraggio nel parlare in termini di categorie morali, di valori alti della professione: traccia un modello di riferimento i cui punti cardine danno come assunto la necessità di un equilibrio: l’autorevolezza di cui parla, che non è né autoritarismo né imposizione di ruolo, è invece una virtù che ricorda piuttosto la fortitudo, l’attitudine di certe figure di riferimento del mondo antico fatte di auctoritas, di dignitas, ma nelle quali la pietas (ciò che oggi, in modo affrettato e impreciso, categorizzeremmo come empatia) gioca un ruolo di vitale importanza.
“Si è forti sapendo stare da donne e uomini nelle difficoltà che l’avventura educativa propone. Sapendo vivere lo scoraggiamento come passaggio temporaneo e mai definitivo, perseverando giorno dopo giorno nonostante i tempi lunghi di possibili fallimenti, non cedendo tempo e spazio a un quieto accontentarsi. Si è forti testimoniando forza al ragazzo che ci è affidato. Tenendo saldo il pavimento su cui per natura vorrà puntare il piede del conflitto, piantando fermo il paletto che saprà curvarne il corso irrequieto, lasciando accesa quella luce che nel buio potrà apparire fin troppo intensa. Si è forti dicendo sempre che c’è il possibile”.
Che la scuola sia un fatto profondamente umano dovrebbe essere nella memoria e nell’esperienza collettiva; e sul senso dell’umanità (cioè come campo di prova e affinamento di tutte quelle che sono le emozioni umane) richiama forte il ragionamento di Roberto Contu. In particolare, sulla responsabilità della rimozione del senso del desiderio dall’orizzonte delle finalità della scuola.
Poiché se non desidero non mi proietto, e se non mi proietto non faccio pensieri di progettazione verso il futuro – dunque, in ultima analisi, non mi figuro di avere un futuro – prende corpo la responsabilità politica del pensiero globale sulla scuola come luogo di definizione di questioni secondo la loro urgenza:
“(…) questioni che determineranno il futuro stesso della nostra società. Fra queste, quella del lavoro e della formazione dei giovani, del sostegno alla loro possibilità di un futuro degno, da desiderare e per cui lottare e non solo da percepire come orizzonte di mera sopravvivenza, credo sia una delle più importanti. Una questione che dovrebbe stare in cima alla lista delle urgenze non solo dell’intera società, non solo della scuola, ma di ognuno di noi”.
Certo, i conti si fanno con l’oggi, l’ora, l’adesso. E Insegnanti ha dalla sua tutta la modernità dello sguardo di chi vede da vicino e oltre il presente, e proprio da qui propone temi contemporanei e concreti; temi che vanno oltre il danno immediato, ma ragionano su ciò che sarà poi, a partire cioè dalla proiezione di sé e dalla potenza delle parole nel tracciare i confini di una immagine e nel determinarla:
“Un adolescente oggi è anche e soprattutto l’immagine che condivide di sé e che conferma ogni giorno a suon di post.
«Siamo ciò che connettiamo» e un adolescente è più che mai ciò che connette, e questo muove la riflessione su come la risposta della comunità educativa a questa evidenza sia spesso monca. Penso ad esempio alla notevole attenzione posta a suon di progetti e di polizia postale a scuola su fenomeni deteriori come cyberbullismo e adescamenti in rete, che certo esistono e vanno affrontati, ma che non esauriscono affatto la vera evidenza di un mondo adolescente che oggi abita in toto il web. (…) In questo senso sembra decisivo lo spazio di riflessione e rielaborazione che la scuola può destinare a questioni fondamentali come – giusto per citarne qualcuna – quella delle persistenze sulla rete, della comunicazione e della relazione attraverso il mezzo, del peso della cristallizzazione della propria autonarrazione continua a fronte di uno stato mutevole come quello adolescenziale”.
È, ancora una volta, la questione del tempo e del confronto con tempi che vanno oltre la misura umana una invisibile emergenza educativa. In definitiva: fare i conti con una prospettiva di essere oltre sé, oltre a sé.
Ma se la didattica si concentra sulla competenza, se la scala di valori è quella del merito, se il discrimine è quello dell’utilità (meglio se immediata), la complessità delle cose (del mondo, delle parti sociali, del tempo in cui viviamo), viene di fatto negata. Di fronte a questo processo di rimozione, Roberto Contu richiama “(…) la necessità di renderci disponibili a tornare a sorprenderci. Tornare cioè a stupirci di cosa possa innescare una pagina, un verso, il tentativo di ricercare senso attraverso il bello sottratto alle pieghe del tempo e rimesso a nuovo di fronte alla vita di un ragazzo”.
E, in un altro passo:
“Questo Paese che ha esasperato il proprio urlare, la semplificazione brutale del pensiero, l’altro che diventa sempre e necessariamente nemico, sia esso un collega, un genitore, un ragazzo, un diverso. Il colore della pelle, il razzismo, sì, il razzismo. Il racconto degli studenti carnefici, la delegittimazione sociale dei docenti, la scelta politica dell’inutilità della letteratura, di tutte le materie, della cultura, l’impossibilità del dubbio che rende solidali. Il dogmatismo, la verità rivendicata senza processo, l’impotenza della gentilezza, l’abbandono voluto della dimensione complessa, l’ignoranza esibita. L’abbattimento delle speranze, la mercificazione dell’individualismo, la derisione della solidarietà, del senso di comunità. Ma, peggio di tutto, la tentazione di rimanere in silenzio, nascosti, di sottrarsi all’eccesso delle parole grevi, tentazione che si mischia al sentore acido di lasciare così colpevolmente campo al peggio. Di fronte a tutto questo lo spettro della definitiva irrilevanza della scuola e della funzione educativa”.
A chi serve, dunque, questo libro, che inizia con Pinocchio e finisce con don Milani? A chi è utile questo documento di resistenza umana? Per prima cosa a tutti quelli che hanno a che fare con la scuola: ovvero, ognuno di noi. Non solo gli insegnanti (che facilmente si sentiranno meno soli in questa lettura, e meno amari), ma anche gli studenti universitari, quelli che progettano di restare in qualche modo dentro la scuola, e i genitori degli studenti (non solo universitari) e infine, per estensione, tutti quelli che sono stati, un giorno, studenti.
Ancora, e più, servirebbe questa lettura a chi progetta le idee sulla scuola, poiché questo è di fatto un libro programmatico: il manifesto di un progetto umano, ambizioso e forte. Il progetto di una società.
“Ma poi mi dico che forse, ben più delle parole, basterebbe camminare consapevolmente per un corridoio di una delle nostre scuole italiane in una mattina qualsiasi e magari ascoltare il brusio delle aule, lo scalpicciare di qualche docente che corre per una fotocopia, l’attuffarsi di uno straccio nel secchio di un collaboratore. Forse, ben più che con le parole, semplicemente in questo modo potremmo far percepire con certezza al mondo intero ciò che la scuola è: un’immensa e organizzata industria umana adatta a produrre quotidianamente senso e futuro.
Senso e futuro”.