La scuola arranca. Ma quale scuola poi: quella della tradizione o quella delle competenze? Lettera aperta di una professoressa ai suoi colleghi
La scuola non ce la fa più a star dietro a tutto, non può farcela perché, in base ai parametri attuali veloci e vincenti, è l’agenzia culturale con meno attrattive presente sul mercato.
Non ce la fa più perché sulla scuola continua a riversarsi una massa immane che il ‘fuori’ non riesce a gestire, dal disagio psicologico a quello antropologico, dalla diversità di religione alla difficoltà linguistica a cui si aggiunge la richiesta continua di autoaggiornamento degli insegnanti senza un minimo di direttive. E lascio per ultima la spasmodica rincorsa alla formalizzazione di ogni minimo passaggio didattico.
Vengo da un istituto superiore ‘certificato’ e ho assistito a volte impotente all’incredibile dispendio di energie e di tempo da parte di colleghi bravi e generosi che naufragavano nel funambolismo del lessico aziendale, per stare dietro alle istanze ossessive della burocrazia ministeriale. Traguardo ultimo: la certificazione oggettiva di tutto, voto di condotta compreso. Queste poche righe sono inadeguate a renderle fervore, il tempo speso in collegi ad hoc, discussioni animate e spesso scontri duri tra passatisti e modernizzanti.
In più alto grado le due anime presenti all’interno della classe docente emergono di tanto in tanto con posizioni prossime all’integralismo. Si veda a questo proposito il non recentissimo Togliamo il disturbo dell’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola, che arriva a mettere sotto accusa Don Milani e Gianni Rodari e parla di disastro culturale e di abdicazione da parte della scuola. Su una linea più originale ma non meno dura si colloca Massimo Recalcati con L’ora di lezione in cui l’autore parla in maniera esplicita di erotismo della didattica e dell’apprendimento; ma l’attacco più virulento viene riservato alla ‘scuola delle competenze’, cioè proprio a quella ‘rivoluzione cognitiva’ fortemente voluta e sollecitata dall’Unione europea.
Recalcati viene osannato dagli insegnanti della tradizione e criticato da chi crede che la scuola debba andare al passo coi tempi.
Due schieramenti contrapposti, insomma, che non portano da nessuna parte. In realtà c’è del buono sia nella scuola tradizionale, sia in quella delle competenze. L’importante è fissare e definire i presupposti: che cosa salviamo del passato e che cosa intendiamo esattamente per competenze.
Pur avendo di molto ridotto la mia fede nella persuasione della parola, resto convinta che uno (uno, non il solo) dei momenti centrali della didattica sia la lezione in aula, con o senza tablet, non badando più di tanto alle domande insidiose e provocatorie che ci arrivano da dentro e fuori dalla scuola, della serie ‘a che serve?’. Piuttosto spenderei e spendo tempo ed energia per trovare modi e metodi comuni più efficaci e affini agli adolescenti del nostro tempo.
Quanto alle competenze, diventate ormai uno stereotipo e pertanto facilmente criticabili, ritengo semplicemente che non si possa identificare il mero addestramento tecnico o lo ‘specialismo’ con il concetto più complesso di conoscenza.
Dall’imitazione aziendale basata sull’efficienza e sulla quantità e bontà del prodotto finito ma inerte, si rende urgente il passaggio alla fase pedagogica e culturale. Avere come finalità un”istruzione educativa’ non è semplice, ma si può fare.
Gli insegnanti ce la possono fare, se non tutti molti. Ad una condizione però: che non vengano oberati di lavoro compilatorio in ogni momento, per qualsiasi minutaglia, per ogni tipo di attività, dalla più semplice alla più complessa, in maniera quasi maniacale. Tempo prezioso sottratto alla ‘buona scuola’.
Foto da “La classe – Entre les murs”, di Laurent Cantet (2008)