Il regista tedesco confeziona un film documento divertente e profondo, che intriga e spaventa, sul passato prossimo e sul futuro online, con ospiti famosi e non. Dieci capitoli per capire quando, come e perché l’informatica s’è impadronita della nostra vita, dei nostri corpi, della nostra mente: partendo da quell’esperimento di quasi cinquant’anni fa in cui l’Università di Stanford cercò di collegare due computer a 650 km di distanza. Fu quasi un fallimento, però ha cambiato la storia del pianeta. Due contributi interessanti sul tema, in cartellone in questi giorni al festival del documentario di Milano
Chissà cosa ha spinto Werner Herzog a occuparsi di internet nel suo ultimo documentario Lo and behold – Il futuro è oggi. Una fame di mondi ultraterreni, di superamento degli umani limiti, un poema dedicato all’intelletto umano in due atti, tra celebrazione e dileggio? Finora aveva esplorato tutto, dall’Antartide all’Alaska, alle foreste amazzoniche, e forse era proprio internet l’ultimo territorio inesplorato. Cosa guida il potente intuito di questo regista, che ha saputo scarcerare il documentario da quell’angolo pedante e scolastico a cui sembrava destinato, si può capire forse dal sottotitolo, Reveries of the connected world – fantasticherie del mondo connesso – una chiave che ci prepara a un’indagine degli immaginari della rete. Nei due sensi: come l’intelletto umano ha immaginato la rete. E come la rete ha trasformato la specie umana, plasmandola in base a un immaginario che ormai non è più in mano nostra.
Herzog è uno metodico e comincia dall’inizio, dai laboratori dell’Università della California da dove il progetto Arpa è riuscito a fare le prime trasmissioni da un computer a un altro, da Stanford a 650 chilometri di distanza, nell’ottobre del 1969, l’anno dello sbarco umano sulla Luna. Il primo messaggio, ci racconta il Professor Leonard Kleinrock – che neanche la Marvel avrebbe saputo disegnare con tanta precisione – fu una sorta di fallimento: doveva essere LOGIN, ma è arrivato solo LO. Come Lo and behold, un modo di dire statunitense che esprime più o meno il nostro “tenetevi forte”. Quale altro messaggio poteva aprire altrettanto bene l’era di internet, ridacchia il vecchietto Kleinrock, che mostra a Herzog la prima calcolatrice automatica esclamando: “Questa macchina è così brutta che è bellissima”.
Nei dieci capitoli che esplorano diverse prospettive sul mondo di internet, Herzog, con il suo buffo, inconfondibile inglese teutonico, incontra i personaggi chiave della rivoluzione online che ci ha investito nei quasi 50 anni successivi, dagli informatici, agli astronomi, al principe degli hacker, e anche coloro che sono stati travolti dalla sua onda, nascosti nei centri di riabilitazione per dipendenza da mondi virtuali o rifugiati nelle aree libere da frequenze radio elettromagnetiche. Da un lato l’espansione della conoscenza, dall’altro la fine delle abilità di ragionamento e la perdita di privacy. A un certo punto presenta una famiglia la cui vita è stata distrutta dalla viralizzazione della morte della propria figlia, in cui si vedono la madre e il padre in piedi dietro le figlie sedute intorno a un tavolo che è ricoperto di vassoi di muffin e dolci vari, tutto è nero e lugubre, tranne i pasticcini gialli. Un’inquadratura capolavoro. Herzog li ascolta mentre emergono i dettagli più raccapriccianti della storia, eppure è difficile staccarsi questa patina surreale di dosso: la spietatezza di Herzog non lascia scampo, come se fosse il guardiano della realtà, programmato per non lasciar passare l’inquinamento sentimentale.
Così come quando si prepara a intervistare il re degli hacker, gli è sufficiente creare una forte aspettativa per ottenere il successivo effetto comico, nel momenti in cui la telecamera si accende su questo incredibile “nemico pubblico numero uno”, che è il solito cicciottello nerd americano che con ogni probabilità vive con la mamma ebrea, mangia pizza d’asporto e inforca un paio d’occhiali dalla montatura spessa. Insomma, tutti gli indizi umani ci confermano che siamo in Herzoglandia: perfino Elon Musk, il grande magnate che vuole creare delle colonie su Marte rimane spiazzato dalle domande del regista, e presto si arriva a mettere in dubbio l’utilità stessa di vivere su Marte. Nel mondo di Herzog, i robot perdono l’epica fantascientifica e diventano simpatici, goffi, ricoperti di adesivi pubblicitari, perfino vittime della pedante banalità umana.
Pochissime le donne, ma c’era da aspettarselo in un mondo dominato dai maschietti nerd: l’unica scienziata è un’astronoma, bonazza e supertatuata, anche lei abbastanza sopra le righe. Non stupisce che Herzog, che non possiede neanche un telefono cellulare, abbia deciso di esplorare la strada meno battuta – non ci sono Gates o Zuckerberg, e neanche Snowden – preferendo piuttosto incontrare un profeta inascoltato come Ted Nelson – coniatore del termine ipertesto – che pur avendo immaginato la rete, ora è considerato un povero pazzo. L’autore conferma la sua straordinaria sensibilità per i confini del mondo: per raccontare il cuore di un problema ci porta ai suoi margini, dove l’immaginazione e la realtà, lo stupore e la minaccia, si sfiorano le dita.
Lo and Behold – Il futuro è oggi, film documentario di Werner Herzog
CInema e rete: documentari eccellenti al pavilion unicredit
Si concentra sul nostro rapporto con la tecnologia, la Rete e i social network anche il secondo Festival Internazionale del Documentario “Visioni dal Mondo, Immagini dalla Realtà”, che terrà il cartellone all’Unicredit Pavilion di Milano fino a domenica 9 con nove film, inediti in Italia, che arrivano da Stati Uniti (4) ed Europa (5), e un ricco cartellone di novità di produzione nostrana, ben 14 tra medio e lungometraggi. Venerdì 7 si annuncia molto interessante la “doppietta” di riflessioni su società e informatica: Why I’m not on Facebook (ore 19.30) è l’opera prima di Brant Pindivic, giovane e creativo produttore tv americano che ha deciso di documentare il suo rapporto turbolento e alla fine negativo con il principale social network mondiale (oltre 1 miliardo e mezzo di account al momento); Everything’s Under Control (ore 21.30) del documentarista austriaco Werner Boote, due anni fa autore dell’interessante Population Boom sulla bolla demografica della Terra (siamo ormai oltre 7 miliardi e mezzo) lo vede impegnato in giro per il mondo a caccia di tutti quegli istituti di security control che hanno creato, grazie a Facebook, Twitter, Google e alla raccolta dati, non sempre autorizzata, sull’universo telefonico e sui vari mobile, un immenso patrimonio di informazioni su di noi, sui nostri gusti, le nostre idee, le nostre abitudini, a disposizione di multinazionali a caccia di clienti e agenzie governative a caccia di terroristi (ma non solo).
Il cartellone delle proiezioni, che sono tutte a ingresso gratuito, prevede giovedì 8 due film a sfondo sostanzialmente ottimistico: Rupture: Living With My Broken Brain, diretto da Hugh Hudson (Momenti di gloria) e co-prodotto da Maryam d’Abo, attrice anni fa di un certo successo fin dall’esordio da piccolissima in uno 007, racconta come nel 2007 lei fu colpita da un’emorragia cerebrale, ricordando quei giorni terribili e la sua coraggiosa “vittoria”, mentre scorrono altre interviste a vittime note di lesioni analoghe, come il grande produttore discografico Quincy Jones; alle 22 seguirà Life Animated di Roger Ross Williams, premiato al Sundance e in altri festival internazionali, storia di Owen, figlio autistico del giornalista Ron Suskind, che ha vinto il Premo Pulitzer con un best seller – cui il film è ispirato – sulla malattia e la parziale “ripresa” del ragazzo. Il quale, dall’età di tre anni, dopo una prima infanzia normale, inspiegabilmente smise di parlare, riuscendo poi a comunicare con i suoi familiari solo interpretando alcuni personaggi dei film della Walt Disney, immergendosi in quel mondo fantastico. Il film lo segue dai 3 ai 23 anni.
Gli altri titoli più importanti della rassegna raccontano vicende di scuole difficili, dalla californiana Black Rock High School che raccogli ragazzi giudicati in termini talmente da bassi da non poter continuare gli studi (in The Bad Kids di Keith Fulton e Lou Pepe), alla prima scuola femminile di un villaggio in un’area tribale dell’Afghanistan (in What Tomorrow Brings, di Beth Murphy), entrambi di produzione americana, e di emigrazione, dalla difficile vita nei centri di prima accoglienza per rifugiati , soprattutto provenienti dalla Siria (The Crossing del norvegese George Kurian) alla problematica integrazione di tremila profughi somali accolti nella cittadina svedese di Boreland, nell’estremo nord del paese, (lo mostra Nice People di Karin Klintberg e Anders Helgeson. Completa il programma Clandestino: el ejército perdido de la Cia dello spagnolo David Berlain, che racconta la sopravvivenza dei componenti ancor oggi superstiti, altre 40 anni dopo la fine del conflitto, di un esercito creato dagli Usa in Laos, ai tempi della Guerra nel Vietnam, per bloccare l’approvvigionamento di armi e provviste ai vietcong.
Nella sezione fuori concorso, infine, un omaggio a Pietro Marcello con proiezione di tre suoi film (Bella e perduta, Il passaggio della linea e il corto Umile Italia) e altri temi italiani e internazionali come l’Etiopia terra dei padri secondo Bob Marley e l’arcivescovo Romero ucciso dagli squadroni della morte di San Salvador, cattolici come lui).