I Calibro 35 si sono esibiti per la prima volta al Festival di Sanremo insieme a Diodato e Ghemon, con il brano “Rose viola”. Abbiamo chiesto a Massimo Martellotta di raccontarci questa esperienza e la situazione della musica in Italia oggi
Massimo Martellotta è uno dei membri dei Calibro 35, ha all’attivo diversi album come solista e moltissime collaborazioni con artisti italiani e internazionali. Dopo più di dieci anni di attività (e un album, Decade, nato proprio per celebrare questo anniversario) quest’anno i Calibro 35 hanno partecipato per la prima volta al festival di Sanremo, durante la serata dei duetti, suonando insieme a Ghemon. E noi abbiamo colto l’occasione per fare qualche domanda a Martellotta sul Festival, sulle nuove correnti musicali che stanno conquistando un pubblico [soprattutto] di giovanissimi e – ovviamente – sulla musica della band.
Iniziamo dal Festival di Sanremo: ti chiedo se la partecipazione al festival è stata stressante.
In realtà no, anzi, è stato molto interessante vedere tutti questi tecnici all’opera, che vanno alla velocità della luce. Devo dire che dal-di-qua, dal dietro le quinte, è organizzato tutto molto bene, cercano di ridurre al minimo la possibilità dell’errore nonostante la complessità dei processi.
Immagino che 10 anni fa, agli inizi, non avevate assolutamente idea che un giorno avreste suonato sul palco dell’Ariston, ma immagino pure che non ne avevate minimamente intenzione, sbaglio?
Guarda, onestamente la fortuna dei Calibro è quella di essere sempre stati molto trasversali e non ci siamo mai voluti arroccare sul fatto che facciamo la musica degli anni ’70 con i pantaloni a zampa a tutti i costi. Sono più fanatici del periodo alcuni nostri fan piuttosto che noi. E allo stesso tempo abbiamo sempre partecipato ad eventi molto trasversali: dall’apertura al concerto dei Muse al Delle Alpi, passando per i locali jazz con trenta persone nella bassa padana, fino a contesti molto più classici in cui ci hanno chiamato per sonorizzare un film con l’orchestra. Abbiamo sempre avuto questa fortuna di essere trasversali e con un approccio molto artigianale alla musica. Io poi, personalmente, non ho mai avuto problemi con Sanremo. Mi ricordo un’intervista che ho rilasciato molto tempo fa, mi pare fosse il 2009, quando gli Afterhours sono andati a Sanremo e ci furono molte polemiche per questo. Già in quell’intervista di dieci anni fa sostenevo che per me non c’era nulla di male. Sanremo non è un evento politico, non è che suonando lì si diventa vittime ed ingranaggi del sistema. Sanremo è uno spettacolo televisivo che ti da la possibilità di mostrare il tuo progetto ad un ampio pubblico, e non c’è niente di male. È ovvio che il contesto in cui ti muovi influenza il risultato, però far sentire il tuo pezzo a dodici milioni di persone non è una cosa che capita tutti i giorni.
Quindi la vostra partecipazione al festival con Ghemon rientra in questo progetto di trasversalità? Mi riferisco al fatto che in apparenza Ghemon e Diodato sono molto distanti dalle vostre corde.
Con Ghemon avevano già suonato sia Enrico [Gabrielli] che Fabio [Rondanini] e Tommaso Colliva [il produttore della band, ndr.] l’aveva prodotto. Fabio poi aveva suonato anche con Diodato. Quindi come vedi per quanto un giro possa sembrare distante da un altro non è proprio così. La nostra partecipazione infatti è nata da questi contatti: Tommaso era in regia con Ghemon che ha detto «Sai, sarebbe bello farlo con i Calibro questo pezzo…» e da lì nel giro di pochi giorni abbiamo arrangiato il pezzo e siamo andati. La parte interessante infatti è stato capire come lavorare senza snaturare né il pezzo né i Calibro. E viste le recensioni sembra sia andata bene.
Secondo voi negli ultimi 10 o 15 anni il livello del festival è migliorato?
In grandissima onestà devo dirti che non l’ho mai seguito più di tanto, se lo seguivo era sempre per motivi professionali, seguivo magari qualche artista o cose simili, a volte invece per rimanere aggiornato, diciamo. Però non so darti un giudizio. Posso dirti però che, come ogni evento del genere, il festival è uno specchio del mercato, a volte più fedele e a volte meno. Negli ultimi periodi mi sembra abbastanza “incollato” al mercato, anche se ovviamente un direttore artistico sa già che con le sue scelte si tirerà dietro le critiche di un terzo del pubblico almeno. Inoltre non ho ben chiaro cosa sia il concetto di qualità in musica, questa è una cosa che scrivono sempre i giornalisti, non per criticare la categoria, ma io non lo capisco cosa significa qualità, ti posso dire se mi piace o se rappresenta una qualche categoria semmai. Tutti i partecipanti del festival di quest’anno riempivano i palazzetti già prima di Sanremo, non è gente venuta dal nulla. Ma poi ripeto, è un programma televisivo che deve fare intrattenimento, quindi deve raccogliere un po’ di tutto. Poi è ovvio che il gusto di Carlo Conti è differente da quello di Baglioni che è differente da quello di Mauro Pagani che è a sua volta differente da quello di Pippo Baudo. [Ride]
In quest’ottica quindi è quasi più giusto che ci sia Achille Lauro rispetto a Patty Pravo?
Ma no, non credo questo, perché sul divano dalle 9 alle 11 chi ci sta? Una fascia di età abbastanza adulta, dunque anche Patty Pravo ha il suo perché. È un gioco con un suo regolamento e tutti possono partecipare.
E al di là del festival, come considerate la musica più mainstream? Più che un giudizio estetico ti chiederei un’analisi “sociale”; un certo tipo di “indie” o la trap sono generi che vanno per la maggiore in una certa fascia di pubblico, secondo te perché?
Ti devo dire che li sto studiando, anche perché ho i figli piccoli, ed è un fenomeno che mi incuriosisce tantissimo, perché quando non capisco mi incuriosisco, mi accendo. I miei figli, ti dicevo, tornano da scuola cantando e per me questa è un’ottima lente per capire quello che acchiappa i bambini di oggi. Mi riferisco principalmente alla trap, l’indie tipo Calcutta o The Giornalisti ancora non lo ascoltano perché hanno 5 e 9 anni. La trap quindi è un annetto che la studio e, ti ripeto, non mi parla e non è la mia musica, ma posso capire perché faccia presa. La musica, come la lingua, si evolve rispetto a quello che succede. Il fenomeno di massa mi ha sempre incuriosito; da bambino lo capivo perché una canzone come La Solitudine di Laura Pausini avesse presa: era accorata, lei ha una bella voce, canta bene. Fedez invece non canta, non rappa, parla… e quindi voglio capire, ancora non ci sono riuscito, ma ne prendo atto.
Quindi l’importante è rimanere aperti a tutto e non chiudere le porte a nessuna possibilità di ascolto. Come dicevi, c’è spazio per tutto.
Ma certo! Ma se uno deve fare questi ragionamenti che dovremmo fare coi Beatles che non sapevano leggere la musica, o metà delle rock band che non sanno come si scrive una partitura? La musica fa parte di una categoria che si chiama intrattenimento. La performance, come ti poni, è il 90% della musica, la musica è un “dettaglio” per uno che propone pop, anche se l’estetica è fondamentale in tutto in fondo. Quindi le disamine tecniche sono per i tecnici, ma i tecnici non sono il pubblico. Poi ovviamente ti dico che è sempre lo stesso pezzo da vent’anni: do-sol-la minore-fa-sol, che è quello di «Donne dududu », No Woman No Cry… armonicamente è sempre lo stesso, però funziona.
Però nel ‘900 il mercato è stato differente almeno fino agli anni ’80. C’era sì la parte di musica leggera, più commerciale, o come vuoi chiamarla, ma venivano fuori anche musicisti di una certa levatura, da Gershwin a Zappa passando per i Led Zeppelin, per dire. Il mercato era diviso in parti un po’ più simili, oggi invece mi sembra che il 95% del mercato sia preso da una sola parte. Nel 1975 usciva Metal Machine Music di Lou Reed, un album che oggi non verrebbe mai pubblicato.
Ma guarda, magari Metal Machine Music no, però il discorso non è questo secondo me. Prima c’era una struttura. Gli studi di registrazione, gli strumenti, i tecnici e tutto il resto, costavano molto e se lo potevano permettere solo i professionisti. È ovvio che la quantità di musicisti coinvolti è composta da professionisti. Gli strumenti erano fatti per professionisti. Man mano che i prezzi sono scesi, gli strumenti sono diventati più semplici e registrarsi sempre più facile. È chiaro che la qualità, e mi riferisco a quella squisitamente tecnica del musicista, si è abbassata, tra virgolette. Ma in realtà trovo che sia semplicemente cambiato il modo di fare musica anche solo rispetto a quattro o cinque anni fa. Anche gli strumenti più venduti sono ormai queste piccole macchinette provenienti dal mondo dell’hip hop che non hanno più la tastiera con le note, ma quadratini che fanno partire campioni che metti tu o che sono preimpostati, scale che funzionano sempre in base alla tonalità, che permettono a chiunque di fare basi estremamente efficaci. Questo io non lo trovo un male, bisogna vedere qual è il pensiero dietro. Per tornare al discorso della qualità, se vogliamo dare per assodate le capacità tecniche dei Calibro 35, mi sembra di capire che pensi questo [Martellotta ha notato la mia passione per i Calibro 35, forse è trapelato quando gli ho detto che sono andato a sentirli due volte in pochi mesi, quindi annuisco…] allora pensa che abbiamo suonato al festival di Sanremo e che un rapper come Ghemon ci ha voluto con lui, o anche che Silvestri e Rancore hanno suonato con Fabio, diretti da Enrico. Quindi possiamo prenderci questo piccolo merito di aver portato una band che suona quel tipo di musica in quel contesto e nel 2019 non è scontato. Inoltre sto imparando come si usano quelle macchinette di cui sopra, perché sono malato di strumenti e devo capire come cazzo li usano sti aggeggi. Non so se hai letto il libro di David Byrne Come funziona la musica. Byrne fa un esempio che secondo me è giusto per questa situazione: spiega che i cantanti confidenziali sono nati solo grazie all’invenzione del microfono. Prima, senza amplificazione, era necessario impostare la voce per poter usare un tono alto e fare il bel canto. Con il microfono si è potuto cantare a un volume molto più basso, impostando la voce in tutt’altro modo, pensa a Frank Sinatra per dire. Come vedi anche l’evoluzione della tecnologia inficia molto la musica. Quando è arrivato lo stereo [nel senso dei canali audio] i Beatles erano disorientati, non sapevano che metterci dentro tutto quello spazio, erano abituati al mono. Poi hanno cominciato, da sinistra a destra, prima la batteria, poi il basso, poi la voce, poi i cori ecc ecc. E anche lì si diceva «la tecnologia sta rovinando tutto, meglio prima» e invece… e te lo dice uno che è malato per gli strumenti vecchi. Prima di comprarmi il mio ultimo synth, che è degli anni ’80, ho provato tutti quelli moderni in commercio, ma poi per un feeling mio ho preferito quello vecchio. Però bisogna provare.
Capisco quello che intendi, se uno non rimane aperto alle nuove cose rischia di fare come nella iconica scena di Robertino in Ricomincio da tre, quando Troisi ironicamente dice che la rovina dei giovani è cominciata con l’invenzione del grammofono.
Esattamente! [ridiamo]
Ti pongo un’ultima provocazione, ma dalle tue risposte precedenti so già cosa mi dirai: quindi questi generi, a tuo avviso, hanno la stessa dignità di altri generi? Te lo chiedo perché, per esempio, io sono cresciuto con De André, Pink Floyd e Bauhaus, che a mio avviso non sono neanche paragonabili alla musica più in voga oggi, tuttavia i miei nonni non la consideravano musica in confronto a quella dei loro tempi. C’è quindi una reale differenza o tutto ciò fa solo parte dei soliti corsi e ricorsi storici?
Visto che mi hai fatto l’esempio dei tuoi nonni vuol dire che hai capito benissimo cosa ti dirò: certo che hanno la stessa dignità. Questo si ricollega con tutto quello che abbiamo detto infatti.
Per chiudere ti chiedo quali sono i tuoi ascolti preferiti, di ieri e di oggi.
Allora, dato che praticamente faccio musica sia se me la chiedono che se non me la chiedono, sia se mi serve sia se non mi serve, da sempre, ascolto molta musica, negli ultimi anni tendenzialmente smooth, morbida, perché a volte meno come un pazzo e quindi poi ho bisogno di cose morbide. Tra i nuovi, per esempio, mi piacciono Anderson Paak, Childish Gambino, gli Heliocentric – che fanno un super psych funk. Per quanto riguarda il passato, la mia comfort zone è Jimmy Smith e Lalo Schifrin, o il jazz di fine anni ’50 inizio ’60. Ultimamente poi ascolto molto Berdard Herrmann, un compositore che ha lavorato molto con Hitchcock, quindi musica per orchestra: uno degli album che ho inciso, One Man Orchestra, è ispirato proprio a quel tipo di orchestrazioni.
Grazie mille Massimo, è venuta fuori una bella chiacchierata con diversi spunti.
Sì, lo so, forse ho chiacchierato troppo, ma abbiamo toccato dei temi che mi interessano molto, dunque… [Ridiamo].