L’opera manifesto della riforma teatrale di Gluck e Cazabigi torna alla Scala, per la prima volta nella versione francese del 1774.
Anche l’opera ha avuto le sue riforme costituzionali. Sarà Michele Mariotti a ricordarlo al pubblico della Scala, con Orphée et Euridice, versione parigina del capolavoro di Gluck e Calzabigi, che si ritrovarono a Vienna in anni premozartiani per realizzare insieme una sintesi di tradizione italiana e gusto francese, da lasciare impressa nell’inconscio di tutto il teatro musicale successivo. Lo spettacolo di John Fulljames e Hofesh Shechter in arrivo dal Covent Garden vedrà in scena Juan Diego Flórez, Christiane Karg e Fatma Said, diretti dal giovane direttore pesarese.
Prima unità di musica e dramma nella storia della musica. Contento di questo debutto?
Non ho mai fatto Gluck, ma l’ho sempre amato moltissimo. Per me è un ritorno alle origini dell’opera, con l’emozione di un personaggio come Orphée da seguire battuta per battuta.
Ci spieghi come dovremo orientarci nell’ascolto: quali aspetti dell’opera indicano una “riforma gluckiana”?
Si coglie nel modo in cui Gluck e Calzabigi hanno condensato l’azione teatrale, al punto da ridurre ai minimi termini la sua drammaticità, senza che niente la disturbi. Penso sia questo il senso della rivoluzione: i personaggi sono pochi, in scena rimane solo l’indispensabile, persino i balletti non sono più decorativi ma strutturali ed espressivi, come si vedrà in questa bella produzione in arrivo dal Covent Garden. Inoltre la musica ha un peso specifico che mi colpisce sempre.
In che modo pensa di lavorarci?
Voglio giocare sui colori, sulle atmosfere. La mia idea è di chiedere all’orchestra un vibrato per il primo atto che poi toglierò nel secondo, per la discesa negli inferi, in cui serve un suono gelido. Invece all’inizio la musica deve convincere gli dei a dare il permesso a Orphée di scendere nel regno dei morti: è una musica che deve avere calore.
Un calore che deve perdersi nell’atto successivo.
Quando la vita non c’è più serve un altro suono. In quest’opera, per raccontare l’ambiente, non ci si può limitare alle quartine e sestine dei passaggi che descrivono le folate di vento o le onde del mare. Ci sono scene in cui il suono deve diventare persino asettico, a patto di avere sempre una ragione teatrale.
Si spieghi meglio.
Mi viene in mente La bohème che ho appena fatto a Bologna insieme a Graham Vick: per il finale abbiamo cercato una freddezza simile, non volevamo nessun sentimentalismo. Così, quando con l’orchestra siamo arrivati al suono giusto, Vick si è avvicinato e ha commentato: “Ora è brutto quanto serve”.
Sembra impensabile passare da Gluck a Puccini, invece funziona.
Nella storia della musica cambiano i linguaggi, non cambia mai il tema.
E quale sarebbe il tema?
Le relazioni tra gli uomini. Questi artisti con la loro musica si sono sforzati di raccontare qualcosa di profondamente autentico, che sia sempre “umano, troppo umano”: in scena non ci possono essere maschere. Orphée non ha niente di stereotipato, ma è un personaggio scolpito: basta pensare alla forza dei suoi recitativi, alle pause, ai cambi di tempo.
Ma non sembra solo musicale il suo coinvolgimento.
Perché questa è un’opera sulla solitudine, più ancora che sull’amore. Orphée è solo mentre cerca la sua donna perduta. E sì, mi commuove perché dopo averla ritrovata viola la promessa fatta agli dei e la perde di nuovo: Euridice muore due volte. Per citare ancora La bohème, Marcello dice a un certo punto: “E gli vuoi rinnovare il funerale?”.
Altri passaggi in cui dovremo stare più attenti?
Durante la prima aria di Orphée, Objet de mon amour, che è tripartita. I ritornelli sono scritti sempre nello stesso modo, ma a ogni ripetizione voglio che si colgano delle differenze. È questo che mi interessa di più: la variazione con le stesse note. La seconda volta il suono deve assottigliarsi, per sembrare un’eco dell’esposizione, mentre la terza volta vorrei che venisse fuori la disperazione del personaggio. Tutte le arie di Orphée sono meravigliose, anche se molti si ricordano solo J’ai perdu mon Euridice.
Un’aria che è stata anche criticata, per esempio da Eduard Hanslick, perché potrebbe funzionare anche con parole dal senso opposto: “J’ai trouvé mon Euridice”.
La musica non deve essere triste per forza: è un’astrazione. La musica non ha un sesso, non esiste musica che appartenga soltanto a una situazione specifica. Anche Rossini, nel terzo atto di Otello, riutilizza il tema dell’aria di Don Basilio, La calunnia, dal Barbiere di Siviglia. Ma dove sta scritto che è musica intrinsecamente buffa? In Rossini questi spostamenti di temi da un’opera all’altra avvengono di continuo, proprio perché la musica è duttile. E questo anche Gluck lo sapeva bene.