Una conversazione con Otolab su Dystopia, l’ultimo lavoro presentato all’Auditorium San Fedele nella rassegna Inner Spaces
Il doppio live di Stephan Mathieu e di Otolab di lunedì 9 febbraio ha inaugurato la rassegna Inner Spaces, una collaborazione S/V/N e San Fedele Musica, durante la quale si esibiranno in auditorium alcuni grandi nomi della musica elettronica e di ricerca – tra i quali, Bernard Parmégiani e Robert Henke.
Dystopia, il lavoro audiovisivo di Otolab presentato lunedì sera, era stato eseguito in una prima esecuzione all’Alcatraz, durante l’inaugurazione del festival Milano Musica. Le ritmiche dub e le basse frequenze si accordavano ad elementi sonori più distorti e meno regolari, di cui, dalla mia sedia lontana dal palco, non ero riuscito a individuare la sorgente. La grandezza della sala dell’Alcatraz determinava, inoltre, una dispersione della percezione visiva e sonora, laddove invece il coinvolgimento totale della sensibilità è uno dei primi obiettivi del lavoro di Otolab.
Per indagare più a fondo questo progetto, per capire quali strumenti sono stati utilizzati nella performance e per conoscere il modo in cui lavorano, in occasione del live a San Fedele ho incontrato i membri di Otolab coinvolti: Luca Pertetago, Massimiliano Gusmini e Silvio Mancini.
In cosa consiste Dystopia e da quale idea siete partiti per la costruzione di questo live?
Luca: non partiamo quasi mai da un modello preesistente. Il progetto Dystopia nasceva, piuttosto, dalla volontà di far interagire il Lumanoise, questo minisynth che reagisce al segnale luminoso, con la ritmica digitale, a metà tra dub e techno, di Massimiliano: da un lato, dunque, droni irregolari e sonorità noise, dall’altro ritmi provenienti da un immaginario dark.
Come funziona questo dispositivo?
Luca: è un insieme di strumenti nati nel 2011 intorno a un live che si chiamava Megatsunami, in cui sfruttavamo il Lumanoise, uno strumento di carattere noise che reagisce alla luce all’interno di una performance molto sinestetica. Per Dystopia, quest’oggetto è stato adattato a un contesto meno violento, più musicale. A questo si aggiunge un drone generator, sviluppato da Antonio Cavallini, in cui i parametri sonori sono direttamente controllabili tramite manopole e il cui risultato timbrico è molto più musicale.
Massimiliano: nell’uso del Lumanoise c’è un margine d’improvissazione molto alto, è difficile riprodurre due volte il medesimo suono poiché l’ipersensibilità alla luce lo rende piuttosto instabile. Al contrario, il drone generator ha dei potenziometri che lo rendono molto più gestibile. A questi due strumenti aggiungiamo dei pannelli solari che creano altri droni.
Come s’interfaccia il visual?
Luca: in una prima fase il live, nato da un’idea musicale, non aveva un video. Inizialmente il pubblico osservava gli strumenti che utilizzavamo, oppure un video restituiva l’immagine oscilloscopica del suono. In seguito, per gli spazi meno ristretti, è nata l’esigenza di avere un visual, per aumentare l’immersività del live, per determinare una sorta di viaggio visivo che accompagna la musica.
Silvio: il video non vuole tradurre il suono in immagini, bensì essere una colonna visiva dell’audio.
All’interno di una realtà composita come quella di Otolab, come nasce ciascun progetto e come si sviluppa?
Luca: non tutti i progetti sono uguali. Dystopia è nato a partire da una sperimentazione, non da un concept.
Massimilano: non c’è una maniera univoca di progettare, sarebbe rigido per un gruppo uniformarsi a un metodo solo. Spesso si parte da un’idea d’indagine, si cercano i suoni e si crea una bozza che contiene gli aspetti concettuali e l’immagine audio. Qualcuno porta un’idea e si aggrega chi sente delle affinità al progetto. Spesso alcuni sono coinvolti solo per determinati aspetti – ad esempio, la progettazione di un software o la conoscenza di un dispositivo. Altre volte nasce prima il dispositivo e sulla macchina si costruisce in seguito un live ad hoc.
Come vi difendereste dall’accusa di essere feticisti della tecnologia?
Massimiliano: per noi il dispositivo non basta a fare un live, poiché devono convergere abilità musicali e sviluppo drammaturgico. Stiamo sempre molto attenti affinché non si scada nel feticismo dell’oggetto tecnologico. Il Lumanoise, per esempio, di per sé è un bell’oggetto ma con un bell’oggetto non ci fai il live. Molti dispositivi interessanti sono stati scartati perché non erano adatti alla performance mancando di potenzialità espressive e narrative – magari, invece, più adatti all’installazione.
Luca: più che feticismo per la tecnologia, parlerei di un vivo interesse nello sviluppo di strumenti diversi, non omologati ad un mainstream, originali. In Otolab, d’altronde, ci sono persone con competenze molto diverse, designer, programmatori, musicisti…
Stephan Mathieu è un musicista ambient, la vostra è una musica di ricerca differente, eppure per questo live siete stati affiancati. Avete riscontrato alcune affinità?
Luca: conoscendo il sound di Mathieu capisco la perplessità che si può avere in merito a quest’accostamento. Quello che conta, tuttavia, è il tipo di viaggio che riesci a creare.
Massimiliano: dal punto di vista stilistico, siamo piuttosto lontani. Noi, per esempio, usiamo ritmiche che lui esclude. Tuttavia, è il titolo della rassegna in cui siamo inseriti, Inner Spaces, che potrebbe suggerire un senso per questo collegamento: entrambi i live, coadiuvati dall’uso dell’acusmonium*, sono performance introspettive.
* L’acusmonium è un sistema di proiezione del suono nello spazio, realizzato a Parigi nel 1974 su progetto del compositore François Bayle. Si tratta di un’orchestra di altoparlanti destinata all’interpretazione in concerto di musiche elettroacustiche con lo scopo di spazializzare e “orchestrare” il suono. Un interprete alla consolle di spazializzazione pianifica i movimenti del suono nello spazio, le sfumature e i contrasti, controllando le intensità, la densità sonora, i colori e i filtraggi.
Otolab & Stephan Mathieu all’Auditorium San Fedele