Una storia vera, una storia divisa: Colum McCann con Apeirogon entra nelle vite di due padri, un israeliano e un palestinese cui il conflitto che non finisce ha ucciso le figlie e che trovano, nel dialogo pubblico e nell’amicizia, la via d’uscita a tanta disperazione
Ora che il silenzio stampa è temporaneamente calato sull’ultimo degli infiniti conflitti fra israeliani e palestinesi, è il momento giusto per affrontare Apeirogon, di Colum McCann. E a leggerlo, a perdersi nelle pagine dolenti eppure piene di speranza di questo libro straordinario dovrebbero essere soprattutto i partigiani di entrambe le fazioni. Perché sempre più spesso il dibattito sull’annosa questione israelo-palestinese si trasforma in una sequela di accuse al nemico di turno e insulti ai suoi difensori o esegeti. Mentre il problema, oltre che antico, è ovviamente complesso e infiniti sono i lati della questione. Almeno quanto quelli dell’apeirogon che dà il titolo al romanzo: un poligono con un numero infinito di lati.
Qui, però, i protagonisti sono due, Bassan Aframin, palestinese, e Rami Elhanan, israeliano. Due padri che hanno perso una figlia: Abir, colpita a soli dieci anni dalla pallottola di gomma (ma armata di metallo) di un soldato israeliano, e Smadar, uccisa tredicenne in un attentato suicida da un gruppo di terroristi palestinesi.
Due parti per il tutto. Ma, soprattutto, la condivisione: la decisione di battersi per trovare una via d’uscita dalla strada lastricata d’odio che insanguina quel minuscolo pezzetto di terra.
Il romanzo, che è difficile definire tale perché i personaggi, le loro storie e le loro parole sono reali o realistiche (anche se abilmente inframmezzate da quelle – molto belle – dell’autore), racconta il percorso che entrambi hanno fatto, separatamente e insieme, per liberarsi dal desiderio di vendetta, per conoscere e riconoscere quello che non vogliono considerare un nemico, per tentare l’arduo ma ineluttabile cammino verso la pace.
Bassan è cresciuto sotto il tallone dell’occupazione e a 17 anni è finito in galera, rimanendovi sette anni, per aver manifestato e tirato pietre e non solo contro i soldati israeliani.
Rami è un grafico di successo, un uomo che ha combattuto per il suo Paese ma che poi ha solo pensato a lavorare, a fare il bene della sua famiglia e non si è mai impegnato politicamente, a differenza della moglie, schierata con i movimenti di sinistra per la pace come suo padre, ex importante deputato della Knesset.
Quando i due si conoscono, hanno già iniziato un percorso di rifiuto della violenza. Rami ha perso sua figlia anni prima e ha deciso che l’unico modo per pacificare se stesso è tentare di fare pace con il nemico, cominciando a non considerarlo più tale e a lottare contro l’occupazione dei territori. Bassan ha fatto i conti, in carcere, con l’enormità della Shoah: la visione di un documentario l’ha scosso nel profondo, al punto che anni dopo decide di prendere un master in Storia presso un’università britannica proprio sulla Shoah.
Abir muore dieci anni dopo Smadar, nel 2007, quando entrambi i padri sono già fortemente impegnati sul fronte del dialogo fra i due popoli. E insieme continueranno, raccontando la loro comune eppure diversa storia, battendosi perché nessuno debba più piangere un figlio per mano israeliana o palestinese.
Ogni conferenza, ogni incontro comincia con le stesse parole: “Mi chiamo Rami Elhanan, sono il padre di Smadar. Sono un graphic designer, un israeliano, un ebreo”. “Mi chiamo Bassan Aramin, sono il padre di Abir. Sono un palestinese, un musulmano, un arabo”.
Poi Rami racconta di come all’inizio volesse “mettere le cose in pari, uscire e uccidere un arabo, qualsiasi arabo, tutti gli arabi”. Per poi chiedersi: “Provocare dolore ad altri lenirà il dolore insopportabile che ti sta lacerando?”. E fatale sarà l’incontro proprio con quegli arabi: palestinesi che, come lui, hanno subito un lutto, e che ora si incontrano con israeliani nelle loro stesse condizioni: ”A condividere il proprio cordoglio. Non a utilizzarlo o esibirlo, ma a condividerlo, sostenendo che non è un decreto della fede che noi si debba vivere per sempre impugnando una spada… Avevo quarantasette o quarantotto anni all’epoca, e dovetti imparare ad ammettere che era la prima volta in vita mia che vedevo i palestinesi come esseri umani. Non solo come operai nelle strade, o caricature nei giornali, o come vaghe sagome, terroristi … gente che soffre esattamente come soffro io”.
E Bassan: “Delle persone vengono nel tuo villaggio, persone che non riconosci, che parlano una lingua che non capisci, chi sono? Sembrano alieni… Invadono la tua casa fra le colline, la sbarrano, la demoliscono … Arrestano il tuo insegnante fuori dal cancello. E ben presto arrestano pure te”. Poi la rivelazione, in carcere, con il documentario sulla Shoah: “All’epoca gioivo al pensiero del destino di sei milioni di ebrei. Continuate a morire, avanti, oh vi prego, fatene fuori sette, otto, nove milioni. Noi eravamo cresciuti con la convinzione che la Shoah fosse una pura e semplice bugia … Ma dopo qualche minuto cominciai a sentire qualcosa su per la spina dorsale, un brivido … Ai miei compagni di prigione cercai di nasconderlo, ma in me qualcosa era cambiato”.
La morte di Abir avviene quando Rami e Bassan sono già amici. Una beffa, uno schiaffo contro la comune ricerca della pace. Ma non abbastanza forte per abbandonare la strada ormai intrapresa della riconciliazione fra i due popoli.
Apeirogon non è un libro triste, è un libro poetico. Soprattutto, è un libro necessario.
In apertura Netiv HaAsara, foto di Cole Keister/Unsplash