Palma d’Oro al festival sulla Croisette 2016, “Io, Daniel Blake”, l’ultimo film diretto da Ken Loach e sceneggiato da Paul Laverty, racconta la lotta di un carpentiere per la difesa dei propri diritti contro un welfare che sembra sempre più un nemico di chi cade. Non abbastanza malato per vivere del sussidio d’invalidità, non sano a sufficienza per trovare un lavoro, Blake (Dave Johns, bravissimo) sfida il potere in compagnia di una giovane donna sola con due bambini, vittima a sua volta di una società dove chi si ferma è perduto. Un grande esempio di cinema civile, intelligente, amaro e arguto
La dignità, la difesa della dignità non è un valore negoziabile. In un’era, che dura da una trentina d’anni almeno, in cui ricchezza e carriera paiono essere in Occidente (ma non è che dalla classe media di Russia o Cina arrivino segnali molto più incoraggianti) gli unici veri riferimenti, gli obiettivi delle vite di milioni di persone (ricordate i Rokes, “Il denaro ed il potere sono trappole mortali che per tanto tanto tempo han funzionato…”, e poi dicono che la cultura pop non ha molto da insegnarci, anche “a noi della sinistra”, da Bob Dylan-Nobel in giù…) è struggente e bello ritrovare agli estremi opposti della scala generazionale, i più e i meno giovani, la giovanissima Malala o l’appena defunto Andrzej Wayda, esempi importanti a sostegno di questa rivendicazione etica, che diventa poi subito anche sociale e politica.
Io, Daniel Blake di Ken Loach, meritatissima Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, film n. 14 sceneggiato dal regista insieme a Paul Laverty, si iscrive in questo orizzonte, come quasi tutta la filmografia dell’oggi 80enne cineasta di Nuneaton, nato nel pieno dell’Inghilterra “periferica” che ha votato sciaguratamente per la Brexit (ma Newcastle, dove il film è ambientato, ha bocciato a strettissimo margine il “leave”). Ci spiega tante cose della Gran Bretagna, e potrebbe insegnare molto pure a “noi europei” Daniel Blake, carpentiere di indiscutibile perizia e dall’orgoglio professionale incrollabile, messo fuori gioco alla soglia dei 60 anni da un attacco cardiaco. Per il sistema sanitario inglese non è “abbastanza malato” da poter vivere col sussidio di invalidità, che gli viene infatti negato, ma neppure “abbastanza sano” per cercarsi un nuovo lavoro. Che ben pochi, alla sua età, sono disposti a offrirgli.
Non resterebbe a lui, vedovo di una donna fuori dagli schemi che ancora ama, nulla di meglio e di diverso che un infelice e indigente ménage per gli ultimi anni di una vita, a tratti certamente anche felice, da cui sembra però aver avuto meno di quanto ha dato. Ma Daniel è un uomo della vecchia guardia, e non si rassegna a veder svanire la sua dignità, e soprattutto a rinunciare ai diritti di cittadino, che saranno ricordati con pathos contagioso nel finale, in una bellissima orazione funebre quasi shakespeariana. Sceglierà così di sfidare quel welfare che sembra più un implacabile, cieco moloch burocratico che uno strumento al servizio dei più deboli, affrontando in primo luogo il “nemico” computer, di cui ignora tutto, per elaborare moduli sempre più complicati.
E in questa sua battaglia, che si rivelerà donchisciottesca o quasi, in primo luogo nella sua infinita nobiltà, coinvolgerà Katie, giovane amica occasionale, sfortunata come e forse più di lui, vittima di una sorte coniugale avversa e di una macchina pubblica che a tutto è votata tranne che all’assistenza di chi ha poco con cui vivere. E due bambini da crescere. Si venderà perfino i mobili di casa per resistere, sperando che alla fine, come in un film di ottimismo hollywoodiano, che certo non sarebbe da Loach, qualcuno gli renda giustizia.
Io, Daniel Blake è certamente un film sulla neo-povertà degli anziani (e si parla di chi ha più di 60 anni, in Italia sono il 38% degli abitanti), fenomeno che cresce paurosamente nelle nostre società e si somma a quello degli stranieri migranti, delle donne sole, spesso con figli senza padre noto, dei disoccupati e di altri ancora. Ma è soprattutto un invito a non smettere di rivendicare i propri diritti. Perché Blake, messo all’angolo come tanti suoi predecessori nel cinema di Loach da una società che non fa prigionieri, in cui chi si ferma (da tutti i punti di vista, qui anche tecnologico) è perduto, è ben più che il prototipo di una generazione che ha vissuto la faccia buona del capitalismo, con stipendi sicuri e diritti riconosciuti: e che ora viene invitato, da un malvagio spirito del tempo, ad “andarsene con stile”, perché di certo sarà uno straniero nella patria dei call center e dei vaucher, degli “imprenditori di se stessi”, cioè di quei milioni di persone che il lavoro se lo devono inventare da sé, perché nessun imprenditore, privato o pubblico, gli dà.
Daniel (uno strepitoso Dave Johns, ma sono bravissime anche Hayley Squires nel ruolo di Katie e Sharon Percy, partecipe e impotente impiegata dei servizi sociali) nel suo dna non ha il perdere senza battersi, e resta fedele all’idea che un cittadino può, anzi quasi “deve”, reclamare ciò che gli spetta, secondo le regole: perché non tutto può essere regalato all’arbitrio, a quel gioco, anche socio-economico, dei potenti, che oggi ha costruito, a Newcastle come ovunque, la società più ingiusta e ineguale, in termini di distanze sociali, culturali, etniche che abbiamo visto da tanti anni a questa parte.
Io, Daniel Blake, di Ken Loach con Dave Johns, Hayley Squires, Sharon Percy, Dylan McKiernan, Kate Runner, Briana Shann