Le sedie di Ionesco al Carcano fino al 20 marzo nella visione di Valerio Binasco con Fracassi/di Mauro interpreti eccezionali
©PHOTO LUIGI DE PALMA
Andato in scena nel ’52 accolto da elogi di Jean Anouilh su “Le Figaro” (non a caso nella stessa stagione di Aspettando Godot di Beckett) Le sedie è uno dei manifesti classici del teatro così detto dell’assurdo del romeno Eugène Ionesco (1909-1994) riproposto in una bellissima rilettura di Valerio Binasco al Carcano fino al 20 marzo – dopo il debutto a Torino – con due interpreti eccezionali, Federica Fracassi e Michele di Mauro, come una persona sola.
In Italia questo atto unico fu coraggiosamente rappresentato la prima volta da Franco Parenti al Piccolo Teatro nel’56, in coppia con La cantatrice calva, passando indenne nonostante sconvolgesse tutti i canoni del teatro; poi ripreso nel ’66 al Convegno di Milano con una coppia di attori rigorosamente borghesi come Besozzi e la Merlini, un salto mortale.
Rivista e risentita oggi, nello spettacolo sontuosamente clochard e clownesco (scene e luci di Nicolas Bovey, costumi di Alessio Rosati), la commedia sbatte violentemente contro l’attualità, segno che lo scrittore, di cui si era impossessata senza permesso la destra, aveva previsto tutto. Il parlare a vuoto, a vanvera, la realtà virtuale, la solitudine di coppia e in fondo l’assurdità del vivere su cui i francesi avevano già messo a quei tempi importanti cartelli segnaletici. Sono “giorni felici” quelli di questi due vecchi coniugi (nella prima recensione italiana si diceva portieri…) che stanchi di tutto vogliono allestire una grande serata di addio, invitare i vip, ed è evidente che è una recita d’onore, l’ultima.
I loro sono ospiti invisibili, in un continuo accatastarsi di sedie che rimangono vuote e di presenze medianiche con cui i padroni di casa fingono di intrattenersi fino all’arrivo del Re ed infine di questo oratore che si rivela sordomuto (ma a Torino non arriva). In questo marasma di desolazione (post bellica) molto esistenziale (Sartre e Camus sono davvero invitati di riguardo), Le sedie ci presenta l’assurdo quotidiano non del teatro ma dell’esistenza in un continuo gioco di specchi. I due coniugi, che finiscono per buttarsi allacciati dalla finestra, rappresentano tutti e tutti li rappresentiamo come dirà il filosofo biografo Jean Paul con una scelta appropriata di Parole.
Vedendo la strepitosa Fracassi che in questo antro fangoso allinea una serie di sedie di varia foggia ed epoca (anche qui è chiaro il riferimento ad allestimenti del teatro che fu, salotti e cucine, realismo e borghesia) ci viene in mente la ripetitività di gesto e pensiero, l’àncora fasulla di salvataggio che pare la vita in due, tanto che quando parlano di un figlio, viene in mente l’Albee di Chi ha paura di Virginia Woolf? che il figlio se lo inventa.
E viene molto in mente Fellini, non solo per il consunto boa di piume degno dei Legnanesi che lei sfodera, come la gran soubrette in ritiro della scena dell’harem di Otto e mezzo, ma per l’aria di clownerie che domina. In cui Michele di Mauro è un vero re, è lui forse l’oratore ma non è sordomuto. Tutto finto, come oggi i dialoghi social, tutto inutile come un twitter, tutti presenti e assenti come in uno zoom: i due attori truccati in grottesco, sanno meravigliosamente essere disperatamente ìlari e Binasco sfodera una magnifica trovata (strehleriana, quando cercava i tre dei nell’Anima buona di Sezuan) lasciando libero un riflettore dal palco in sala per trovare l’ospite d’onore, ed è ancora più chiaro che si tratta proprio di teatro al quadrato.
Ionesco è un bambino che ci guarda stordito e saputello, tronfio della sua presunta assurdità che nel corso del tempo è andata normalizzandosi, perché non c’è niente di più assurdo della quotidianità e dell’odi et amo per l’umanità che alla fine è invisibile. Non aspettano Godot i nostri due, aspettano re e oratori, ma la somma delle disillusioni non cambia e dentro tutto, in fondo, c’è un amore sinceramente tradito, splendidamente reso nei sottili anfratti della recitazione dei protagonisti che si amano e ci amano tanto da invitarci a casa, nel loro tugurio. Le sedie sono per noi che applaudiamo disperatamente, anche se Binasco ci avverte, è l’assurdità della speranza, chiudendo così il cerchio con grande emozione.
Maurizio Porro