Ironia in quanto eccetera eccetera

In Arte

In occasione del 50esimo anniversario della fondazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna presenta fino al 7 settembre 2025 la grande mostra collettiva “Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo” a cura di Lorenzo Balbi e Caterina Molteni. Pensata per gli spazi della Sala delle Ciminiere con l’allestimento di Filippo Bisagni ispirato al progetto di Aldo Rossi, con più di 100 opere e documenti d’archivio di oltre 70 artisti, l’esposizione attraversa un arco di tempo di circa settant’anni – dagli anni Cinquanta a oggi – proponendosi di ripercorrere la storia dell’arte italiana tramite il tema dell’ironia. Tra dubbi, sviste, eccetera, eccetera.

Non ci sarebbe miglior metodo che pensare una mostra sull’ironia seguendo il criterio di una catalogazione scientifica fallimentare…   “ironia come gioco” “ironia come nosense” “ironia come lotta al patriarcato” sono i tentativi di definire una particella di senso, che, per sua natura, è sfuggente e ama essere fraintesa. Anche al suddetto, per esempio,  è capitato una volta di vedere affibbiato il termine ironia a un pittore che, più per incapacità che per ingegno, vedeva organizzare delle figure malconce equipaggiate di un chiaroscuro fatto semplicemente con il nero, ed è sorto anche in me, da allora, l’esigenza di provare a dare una definizione netta e arbitraria a questo nome abusato e ormai clichè. 

L’allestimento di Filippo Bisagni ispirato al progetto di Aldo Rossi.
In primo piano: Paola Pivi, Have you seen me before?, 2008, schiuma poliuretanica, piume, plastica, legno, acciaio, 108 x 200 x 100 cm, courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

L’ironia è una stramba tecnica linguistica che prevede l’uso del linguaggio stesso per parlare di qualche cosa d’altro da quello che tendenzialmente sarebbe il significato delle particelle grammaticali poste in questione. Essendo un’operazione intellettuale,  richiede una intenzionalità. Si potrebbe dire che è una figura retorica legata allo scardinamento dei triangoli semiotici, anche se – gli assidui utilizzatori di questi triangoli sbilenchi potranno confermare – è una figura retorica legata allo scardinamento della vita stessa, giacché, in effetti, l’ironia è molto invasiva e conduce a una precisa attitudine di distacco verso le cose del mondo. Vorrei allora già fare una prima pesante ipotesi su che cos’è quella cosa che accomuna prima le persone e poi gli artisti affetti da questo gelido morbo: una sfiducia generale nell’efficacia del linguaggio, o la consapevolezza dei suoi vicoli ciechi. Giustamente viene ricordato Josè Ortega nell’introduzione del catalogo, un autore piuttosto pessimista nei confronti del caricare di contenuto interno una catena di parole, e basti solo sostituire queste parole a dei segni, delle pennellate o a dei colori usati male per capire che tanto nell’arte quanto nella vita siamo condannati a una incomprensione vicendevole che ci ridurrebbe essenzialmente allo statuto di bolle con le gambe (soli). Dunque, se è tanto difficile comunicare il quotidiano, figuriamoci i grandi temi che l’arte nostrana cerca di addossarsi: la Madonna che soffre per il figlio morto, Gesù che risorge eccetera (che poi, infine, nessuno storico dell’arte guarda la crocifissione per il suo contenuto trascendente e viene esaltato dalla verità della resurrezione, e piuttosto presta attenzione all’organizzazione formale dell’immagine, ai colori, alle pennellate, eccetera, dettagli che notiamo per una sorta di bias moderno ma che non credo fossero di primaria importanza per il pubblico dell’epoca; empasse che per alcuni renderebbe ogni opera e a questo punto ogni oggetto esistente plausibile di “contemporaneità”).  Se l’arte per l’arte vuol dire partecipare a un teatro di fraintendimenti e sovrainterpretazioni non può essere l’arte e il suo mito autoconoscitivo il luogo dove riporre la fiducia di un proprio agire. Ma non vogliate pensare che l’artista ironico sia solo un cinico o un pessimista convinto, no, c’è qualcos’altro.

Giuseppe Chiari, L’arte è finita smettiamo tutti insieme, 1974, manifesto a stampa, 100 x 70 cm, courtesy Frittelli arte contemporanea, Firenze

Si tratta dell’urgenza di porre l’attenzione altrove, su qualcosa di molto più importante di una mostra al museo… È come se l’ironia , la messa in discussione dei modi che abbiamo definito per comporre un discorso, e il riso di fronte all’evidenza di un meccanismo che si rompe, riuscissero a riaffacciarsi su un territorio alieno, su un problema prima di tutto esistenziale – uno spazio spaesante e, in fondo, terribilmente amaro, dove qualsiasi possibilità di razionalizzazione è parziale, buffa e destinata a fallire. L’artista ironico rivela una sorta di fede segreta per questo luogo vuoto e vicino all’assurdo che sfugge e resta ancora irrappresentato. 

(non mi verrebbe altro modo di chiamare questa capacità di increspare il linguaggio per bucarlo ed accedere a un altrove come “poesia”)

Vorrei ora provare a formulare una seconda ipotesi ancora più arbitraria sul sentimento che conduce alla strada dell’ironia, ponendo in gioco una ulteriore forma di sfiducia, quella nell’istituzione intesa in senso lato: un organo capace di produrre, diffondere e verificare una conformità, ed escludere ciò che non corrisponde al proprio senso dichiarato sovrano. Mi sembra che si tratti, ancora una volta, di una insofferenza verso un meccanismo dichiarato corrotto e intrinsecamente fallimentare. Perché se già è un problema tentare di comunicare agli altri quella melma interna cangiante e multiforme che a seconda del grado di vicinanza alla coscienza pura chiamiamo identità personale o senso del sé, figuriamoci quando questi bofonchiamenti dialettali e/o balbettamenti devono passare al vaglio dei burocrati della cultura e della loro macchina impietosa: qui il linguaggio irripetibile del parlante viene processato, si cristallizza nel luogo comune (il cibo dei professionisti di settore), e muore. 

Sembra che la tecnica dell’ironia funga da simpatica resistenza o da sistema immunitario naturale contro la macchina dell’omologazione: si appropria del clichè e del suo involucro svuotato, si mimetizza maldestramente, ma persegue il compito di uccidere dall’interno un senso che ha riconosciuto come inutile e atrofizzato.

Tomaso Bing, Carta da parato, 1976 (2025).
Dietro la finestra: Chiara Fumai, Annie Jones, Harry Houdini, DopeHead, Eusapia Palladino, Zalumma Agra, Dogaressa Querini, Read Valerie Solanas, 2013, C-print, 6 elementi, 80 x 120 cm ciascuno

E questo, l’atrofia (o atrofismo, come lo chiamo io), succede in particolar modo quando, nel nostro caso, a organizzare un discorso non è l’artista ma il suo ingombrante sostituto, il curatore. Costui, che si è convinto che organizzare mostre sia il migliore modo per soddisfare il suo sogno utopico e disperato di cucire la storia, compie scelte che raramente soddisfano il buonsenso e sembrano invece in ritardo rispetto a ogni fluttuazione del senso storico. Eppure, sono precisamente queste scelte nate vecchie, gli atrofismi, appunto, che  si impongono come criterio di ammissibilità del “nuovo” e finiscono per dettare all’artista un modus operandi non proprio da rispettare. E’ nella messa in discussione di questo potere triste e segreto che l’artista ironico ribadisce la propria indipendenza e protesta per la centralità del suo operato, proponendo un’opera che se incarna un discorso digeribile e uniforme è per disarticolarlo e riportarlo al suo equivoco centrale: una realtà irrappresentabile perché sfuggente, ambigua, maldestramente polisemica, pregna di significati inconciliabili che ovviamente sono tutti sbagliati a parte quelli non detti.  

Piero Gilardi, Animazione “Renzi che salta”, 2015. Pupazzo, telone, cinque cappelli, poliuretano
espanso, PVC, 70 x 90 x 140 cm. Courtesy Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, foto Leo Gilardi

Concludendo

In questi paragrafi ho delineato  una sorta di etica di base dell’ironia e di una relativa funzione antropologica da trickster, piuttosto che una precisa modalità estetica del fare ironico, perché in tale distinzione, per quanto detto, mi sembra di trovare un punto fondamentale: l’ironia muore quando questa diventa  posa estetica. E’ evidente che ci sono delle false presenze in museo, delle male interpretazioni – appunto – del lavoro di artisti che non hanno nulla a che vedere con l’attitudine ironica, per così dire “distruttiva”, posta in questione.  Chi galleggia nei flutti del postmoderno – un’ironia che se svela qualcosa è un edonismo e l’ingombro del proprio ego – , chi si avvale di un’ironia ma codarda e ammaestrata, chi, invece, dell’ironia non ha proprio nulla. Lascio alla vostra visita il divertente gioco ermeneutico di trovare gli intrusi.

Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo, MAMbo, Bologna, fino al 7 settembre 2025

In copertina: Piero Golia, On the edge (Sulla cresta dell’onda), 2000. Framed Photo, 37 x 52 x 1,5 cm. Courtesy l’artista

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