Di Israel Joshua sta per uscire A ovest del giardino dell’Eden. L’esperienza di traduzione del romanzo, la storia di tre straordinari fratelli e i casi della vita
Possiamo dire che questa è una storia di fratelli, e di cacce al tesoro. Ci sono di mezzo infatti mio fratello, e tre fratelli – i Singer – nati in Polonia molto prima di noi e che hanno avuto esistenze complicate, difficili e con dinamiche fraterne da divano dell’analista.
Ma andiamo con ordine. Mio fratello ha la mania della letteratura yiddish, ovviamente di quella tradotta in inglese o in italiano. Purtroppo né io né lui capiamo l’yiddish, altrimenti ci si aprirebbe davanti una prateria immensa – oltre il 90 per cento della produzione letteraria yiddish non è mai stata tradotta, e il lavoro procede con lentezza (per avere un’idea della vastità del campo basta dare un’occhiata al sito dello Yiddish Book Centre).
Comunque mio fratello, negli Stati Uniti per lavoro, è tornato a casa pochi mesi fa con un volume trovato con grande fatica presso un antiquario: East of Eden di Israel Joshua Singer edizioni Alfred A Knopf, anno 1939, traduzione di Maurice Samuel. Una vera pepita d’oro, perché Israel Joshua Singer (a sinistra nella foto), dopo essere stato in vita – una vita breve, perché morì d’infarto a soli 50 anni, nel 1944 – l’elemento più famoso della famiglia Singer e il letterato più acclamato, fu poi completamente eclissato dal fratello minore Isaac Bashevis, vincitore di un Nobel. E i suoi libri finirono in un cantuccio, uscendone più tardi e un po’ alla chetichella.
Sorte ingrata, perché quasi tutti quelli che conosco sono rimasti folgorati dai romanzi di Israel Joshua, assai meno sognanti di quelli del fratello, in apparenza meno poetici (solo in apparenza, perché Israel Joshua è asciutto ma profondo), ma capaci di disegnare affreschi grandiosi e di farci capire la storia di quell’angolo tormentatissimo di mondo, con le sue comunità ebraiche sballottate dal conquistatore di turno, polacco o russo o germanico che fosse.
Comunque per tornare a casa nostra, mio fratello ha cominciato subito a tempestarmi di messaggi sulla bellezza di questa pepita antiquaria. Evidentemente non ha tempestato solo me, perché gli sono bastate poche ore per convincere anche i responsabili della casa editrice Bollati Boringhieri, e a loro è bastata mezz’ora o poco più per chiedermi una prova di traduzione urgente, gettandomi nel panico più totale. Insomma, era come essere invitati fuori a cena da Matthew McConaughey: oddio, come mi vesto, come mi pettino, non sarò mai all’altezza.
Il problema per quasi tutti i traduttori è quello delle prime pagine, cosa che rende le prove di traduzione simili a ordalie: si fatica a trovare la “voce” che daremo all’autore, si fatica a trovare il ritmo, a intuire il registro.
Destino ha voluto che proprio nel caso di un autore che rifuggiva gli angeli e i demoni del misticismo che lo circondava si sia verificato un miracolo che ha del soprannaturale. La voce di Israel Joshua l’ho sentita fin dalle prime frasi, forte, bella e sicura (e quindi onore al merito anche del defunto Maurice Samuel, perché quando una traduzione “canta” così, come una sirena irresistibile, deve proprio essere una signora traduzione). Era una voce inequivocabile, che inizialmente lenta e lirica mi ha portato nel misero villaggio di Pyask, nella casupola di Mattes il pio, mite, timoroso venditore ambulante, per poi farsi più rapida, drammatica – siamo andati a Varsavia, lasciandoci alle spalle la Torah, il Talmud e la vita arcaica di Pyask. C’è uno strappo, nel romanzo: lo strappo da una religione all’altra. Il pio Mattes vive e muore come sono vissuti gli ebrei poveri prima di lui, per secoli. Nachman, l’unico figlio maschio, si ribella: basta Dio, basta pregare, basta piegarsi a una volontà superiore imperscrutabile e iniqua, e chiaramente al soldo dei potenti. Il titolo originario in yiddish, assai efficace, era Chaver Nachman – Il compagno Nachman. Agli americani non era piaciuto, ed evidentemente non è piaciuto neppure all’editore italiano, che ha preferito un più blando A oriente dei giardini dell’Eden. Ma insomma Nachman, il figlio per cui Mattes sognava una carriera da rabbino, abbandona la Torah, comincia a lavorare in un panificio e si dedica alla rivoluzione. È instancabile, integro, fanatico – fanatico nel modo perdente e indifeso dei puri di cuore.
Nachman ha un sogno: andare a vivere in Unione Sovietica, il paese a oriente, l’Eden del proletariato. Nulla lo ferma, nulla lo piega, né le lacrime della moglie e lo smarrimento del figliolo, né il carcere, e neppure le torture inflittegli dal regime autoritario in Polonia. Ma Israel Joshua Singer la Russia comunista la conosceva bene, ce lo aveva condotto la sua attività di giornalista, e la realtà si era rivelata amara. E il romanzo è dolente e disperato, con la disperazione dei traditi dagli ideali: il compagno Nachman vive in un mondo feroce, dove solo negli ultimi degli ultimi sopravvive un poco di umanità.
Sì, lo ammetto, lo sfortunato Israel Joshua mi piace infinitamente più del fratello. Mi piacciono il suo utilizzo dei registri, la sua prosa capace di essere sarcastica e malinconica, lenta come un fiume maestoso o turbolenta e scattante come una cascata. Mi piace il suo modo di intrecciare la grande storia con la trama, senza mai appesantire. Sì, ecco, lo amo come Matthew McConaughey, e per fortuna adesso siamo molto più in confidenza.
A questo punto mi resta da conoscere la terza sorella Singer, Esther Kreitman. Scrittrice anche lei, e anche lei quasi introvabile, nonostante il suo Deborah sia stato pubblicato in Italia nel non lontano 2007. Considero di buon auspicio il fatto che mentre scrivevo queste ultime righe il postino mi abbia consegnato una vecchia copia del romanzo di Esther Kreitman, reperita in Inghilterra.
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