Tra pubblico e privato, tra famiglia e Stato, tra vicende di singoli e trame complesse si muove ‘Sangue italiano’, il lavoro profondo che Roberto Casalini ha dedicato alla storia criminale d’Italia dal 1860 a oggi. Molti fili da tirare per arrivare al cuore di tenebra di questo paese, tra banalità del male e fenomeni violenti dalle radici tenaci
Sangue, tanto sangue e coltelli, pistole, spesso, troppo spesso, in mani giovanissime. Allarme sui giornali, cosa accade a Napoli e non solo, com’è che nelle scuole, sui campi di calcetto, dove ci si ritrova con la compagnia, si tirano fuori coltelli, non di rado si spara con una facilità che lascia ammutoliti. Cosa succede ai ragazzi, ma anche alle ragazze. Cosa succede a noi tutti. “Vediamo sempre più spesso coltelli, questo è ciò che è cambiato in strada” confermava qualche settimana fa Mario Furlan, dei City Angels milanesi. Per non dire, ancora e sempre, della scia ininterrotta dei femminicidi – uno ogni tre giorni: ad un anno di distanza dalla morte di Giulia Cecchettin per mano del suo ex Filippo Turetta, è deluso chi sperava che l’urlo sollecitato dalla sorella Elena, oltre a riempire le piazze, segnasse un decisivo scatto della consapevolezza maschile in tema di violenza.
Invece. C’è la sensazione di una violenza diffusa, linguaggio d’odio che straripa dai social e insieme concretissima ferita sociale dai modi antichi e brutali: la guerra vicina, crudele, senza sosta – Ucraina, Gaza, ora il Libano – distilla il suo veleno giorno dopo giorno. Ed è all’opera anche una nostalgia di maniere forti e spicce – più galera (e più violenza in galera), nuovi reati ne avessimo pochi, più decisionismo, meno contrappesi e meno proteste di piazza, più mani libere. Qui, lì – stavolta Trump lo abbiamo visto arrivare – soffia violentemente lo stesso vento.
Potreste dire: c’è uno strabismo di percezione individuale, un paese che invecchia e che vuole star tranquillo, c’è che ora sappiamo di più e più facilmente cosa accade anche nella scuola di provincia o nella piazza del paesino, c’è il gran megafono dei social, diamo invece retta alle statistiche che dichiarano – l’orrenda eccezione sono i numeri stabili dei femminicidi – il calo costante dei reati violenti. Tutto vero, ma anche non sufficiente a lenire l’impotenza e a rispondere a molte domande inquiete davanti allo scorrere del nastro della cronaca.
Dunque mettere le mani nel passato collettivo, rileggerlo attraverso le scie che il sangue lascia nella memoria nazionale e individuale e nel costume può venire utile: non a stabilire frettolosi nessi causali o determinismi ‘essenzialisti’ – siamo fatti così e non si cambia mai – quanto a mettere in prospettiva, a capire persistenze e discontinuità, a tirare fili fino ad arrivare al ‘cuore di tenebra’ di questo paese, che ci augureremmo civile e che vediamo scosso da sussulti di rabbia e violenza, taluni quasi incomprensibili nella banalità del male, altri – i femminicidi, ma anche la violenza di stato e le mafie – le cui radici tenaci ben conosciamo.
È un cuore di tenebra da rintracciare scrostando la sottile vernice della convivenza per svelare una polpa velenosa: così scrive Roberto Casalini (giornalista di grande esperienza, ben noto a lettori e lettrici di questa testata) autore di un lavoro tanto enciclopedico quanto profondo Sangue italiano. Delitti, criminalità, violenza pubblica dal 1860 ad oggi che in questi giorni porta in ‘patria’, ovvero nella sua Sardegna (il 27 alle 18 a Sassari, alla Biblioteca Universitaria di Piazza Fiume).
Sottotitolo già chiaro che definisce gli ambiti: il sangue scorre tra privato e pubblico, attraverso cinque capitoli – “I primi passi del regno (1860-1900)”, “Due guerre e una dittatura (1901-1945)”, “La lunga ricostruzione (1946-1968)”, “Anni di stragi, anni di piombo (1969-2000)” e “L’età dell’ansia (2001-2023)” in oltre 150 avvincenti microracconti che accendono spie di memoria, stupiscono, colpiscono per efferatezza, oppure lasciano intravedere una trama comune. Nell’introduzione Casalini avvisa: mi sono dovuto difendere – conoscendolo, si immagina con fatica – dal ‘demone della completezza’, ma ho privilegiato ciò che rimandava alla polpa velenosa di cui sopra. Quella polpa ci conduce nel chiuso delle famiglie e delle relazioni, nella delinquenza che si aggettiva ‘comune’ rivelando così un doppio significato, nelle robuste criminalità organizzate e mafiose, al cuore dello stato, da Bava Beccaris che cannoneggia Milano alla ‘macelleria messicana’ del G8 di Genova, uno dei sette casi affidati da Casalini a colleghi e amici, in questo caso Mario Portanova.
Se un consiglio si può dare – anche se chi scrive è convinta che ognuno legge a modo suo e ne è felice o infelice a modo suo – è quello di centellinare la lettura delle 304 pagine di Sangue italiano costruendo, senza dimenticare le robuste introduzioni dei capitoli, un proprio percorso, da quelli forse più ovvii – tematici insomma – a quelli più insoliti o che consentono di giocare a rimpiattino con la propria memoria. Che talvolta ha sepolto in un angolino e leggendo riscopre, talaltra si accende per un nome, un luogo, un rimando, una data, nell’altalena tra la grande storia e la cronaca delle gazzette o delle trasmissioni tv: la saponificatrice di Correggio, il biondino della spider rossa, la villetta di Cogne, la Circe della Versilia ma anche la Banca dell’agricoltura o il 1992, l’anno insanguinato delle stragi di mafia. Storie alle quali, e Casalini ce lo ricorda puntuale, rinvia anche tanta letteratura, e cinema e musica: chi non sa, con De Andrè, quanto è bello bere un caffè con don Raffaè? Sono storie sulle quali il giornalismo, dai rotocalchi a Porta a porta, ha messo abbondantemente le mani e questo libro dice molto anche sul come: non potrebbe essere altrimenti, visto la ‘pesante’ biografia professionale dell’autore e spesso, da ieri a oggi, non c’è da vantarsene. Altre vicende invece rassicurano sul ruolo che questo lavoro può e deve avere: riavvolgendo all’indietro, dalla morte di Giulia Cecchettin, il lungo nastro dei femminicidi raccontati da Sangue italiano si arriva ad una maestrina suicida nel 1886 perché diffamata, ‘vittima dell’infame pubblico’, scrive al fratello ed è per le donne storia mai finita. E però, invece di essere rapidamente seppellite, Italia Donati e la sua breve vita aprono un capitolo inedito: illibata la suicida chiarisce l’autopsia, alla sottoscrizione per la sua lapide il Corriere della sera fa seguire un’inchiesta che squarcia il velo ‘sul mondo delle maestrine offese’, calunniate, molestate, non pagate su e giù per lo stivale. Un caso ‘limpido’ e antico di patriarcato al lavoro e discriminazione di genere, Matilde Serao firma un pezzo durissimo: “Come muoiono le maestre”. Buon giornalismo, insomma.
Per concludere: il cuore di tenebra così seriamente indagato non è, ci avverte Casalini, la biografia di una nazione, è una parte del tutto, non il contrario. Ma tanto ci dice di noi, della famiglia di questi tempi così retoricamente ‘santificata’, del suo restringersi ‘autistico’ nel particulare che giustifica il peggio, di una democrazia fragile ‘esposta a strappi e torsioni che dall’alto e dal basso la mettono in discussione con la violenza’, dal brigantaggio alle bombe eversive o mafiose, senza dimenticare la ‘coltre di misteri, segreti, omissioni e occultamenti’ che hanno coperto, in troppe storie, autori e moventi della violenza di stato. Tra pubblico e privato, tra Storia e storie, tra ieri e oggi the dark side, il lato oscuro di noi stessi cui occorre sempre guardare.
In apertura: foto di Jr Korpa su Unsplash