Una mostra a Palazzo Reale, curata da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonci, racconta trent’anni di storia italiana nello specchio della moda: tra democratizzazione estetica e nascita della figura dello stilista. Ecco la nostra recenesione
Quella di Palazzo Reale è una mostra singolare. Innanzitutto – e si stenta a crederlo – è la prima interamente dedicata al fenomeno moda in Italia. A poco meno di quattro anni dalla grande mostra sulla moda italiana ospitata dal Victoria & Albert Museum di Londra, quella in corso si può definire un vero e proprio esperimento. E si può leggere anche come un manifesto programmatico di un – necessario – museo della moda.
Parlare di moda significa inevitabilmente riferirsi all’immaginario.
Ma la mostra fa qualcosa di più. Cerca di dare ragione di un fenomeno più complesso e articolato e fa riferimento, più che a un generico – consumistico? giovanilistico? popolareggiante? –immaginario, a una vera e propria “Visione italiana”.
Fu Roberto Longhi, alla metà del secolo scorso, per spiegare il Rinascimento e le sue implicazioni non solo artistiche ma anche umane e geografiche, a coniare questa definizione. Visione italiana.
E la mostra – molto bella – di questo ci parla. Nella vicenda, che viene racchiusa fra due date fatidiche, il 1971 – in cui, in piena atmosfera di contestazione, si materializzano le prime istanze consapevolmente femministe – e il 2001 – l’anno dell’attentato alle Torri di New York, l’anno dell’euro – sono posti in rilievo due fenomeni che, in un certo senso, solo in Italia e in quegli anni potevano verificarsi.
Il primo fenomeno è sociologico ed è quello della democratizzazione. Per un giovane di oggi può risultare difficile immaginare un mondo in cui anche esteticamente la divisione in classi era fortissima. Negli anni Sessanta si materializza il fenomeno di omogeneizzazione nei modi di vestire, di comportarsi, di vivere.
Anche grazie al boom economico che – sebbene in maniera diseguale – ha però coinvolto tutto il paese, la diversità estetica tra povero e ricco si sfuma. E si ideologizza: il sindacalista, il rivoluzionario, la femminista da un lato, il cattolico, il dirigente, il fascista dall’altro assumono modi riconoscibili di vestire e di comportarsi: il “look” in una parola.
L’altro fenomeno – tutto interno al meccanismo produttivo – è invece quello della creazione di una nuova figura professionale: quello dello stilista. Lo stilista diventa figura completamente diversa da quella dello “stylist” anglosassone.
Lo stilista italiano interpreta un ruolo che – sulla falsariga del crescente successo dei designer industriali – supera quello di mediatore tra industria e pubblico per diventare, molto italianamente, il creativo che entra in fabbrica, l’artista che sia fa garante dell’intero processo produttivo: dall’ideazione del prodotto alla sua diffusione di massa.
Che questa figura sia invenzione di alcuni geniali protagonisti – Walter Albini, Giorgio Armani o Gianni Versace – oppure l’applicazione di un’esigenza che proviene direttamente dalle industrie, rimane il fatto che, con un leggero cambio di inclinazione, si opera una vera rivoluzione: la moda diventa stile, l’haute couture diventa prêt-à-porter firmato e a buon mercato. Il piumino diventa Moncler, la scarpa Gommino Hogan, il jeans deve essere Diesel. L’impiegata indossa Armani, il compagno si colora di Benetton.
Somiglia a un fenomeno già visto: dal manoscritto al libro stampato, dall’atelier esclusivo alle catene di negozi.
Incunabolo di questa rivoluzione, ed è l’aspetto più riuscito della mostra, è la mobilitazione di tutto un imponente indotto creativo (la mostra non si propone di analizzare l’aspetto produttivo del fenomeno e quindi dell’indotto industriale).
L’indotto creativo è costituito dai fotografi, gli art director, gli illustratori, i pubblicitari, i creatori degli styling per i servizi fotografici, gli artisti che danno vita a un’esplosione editoriale legata al fenomeno dello stile. È su questo terreno che l’industria tessile diventa vera e propria “visione”.
Abbiamo così un proliferare di nuove riviste – Condé Nast inaugura, in Italia, Uomo Vogue – che coinvolgono designer e artisti; le riviste di architettura aprono sezioni dedicate allo stile e alla moda (la fanno Abitare e Domus) e assistiamo al nascere di alcune esperienze (Frigidaire, Magazzini Criminali, Westuff) che di questo fenomeno si fanno indagatori e promotori.
Nelle sale – intelligentemente divise per aree concettuali – a fianco dei manichini con i vestiti di quel trentennio (rigorosamente in ordine non cronologico) sono esposte le riviste, i disegni, le sperimentazioni di figure intermedie tra questi mondi (Nanni Strada, Archizoom, per dire), alcune opere d’arte.
È questo forse l’aspetto più “tirato via” dell’esposizione: sono esposte, più o meno prevedibilmente, opere di Pistoletto, Beecroft, Cattelan, Fabro, Ontani, Clemente, Paolini, Vezzoli senza un vero approfondimento delle reciproche influenze (dov’è la Pop Art?).
La sezione finale rende merito al più italian tra i fenomeni legati alla moda, quello degli accessori. Che hanno reso un popolo non solo modaiolo ma schiavo delle griffe: zainetti, occhiali, caschi, braccialetti, clip, cinture, cavigliere che fanno riconoscere un italiano anche tra folle oceaniche.
I curatori hanno ragione. La creazione di un museo della moda (o di musei della moda) è necessaria. Offrirebbe la possibilità di costituire luoghi dove ripensare l’identità nazionale in modi del tutto inediti. Confrontandosi con un aspetto che si è imposto in tutto il pianeta.
Senza dimenticare il “paradosso Severgnini” però: quello che a suo dire, all’aeroporto di Heathrow, lo fa riconoscere come italianissimo sebbene indossi una maglietta francese, jeans americani e scarpe inglesi.
Immagine di coeprtina: La sala “Democrazia” della mostra “Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971 – 2001”. F. de Luca – Camera nazionale della moda italiana.