L’autore delle “Lezioni americane” era stato negli States per la prima volta nel 1959: impressioni e aneddoti per la prima volta riuniti nel suo diario di viaggio
Tra il reportage narrativo e il carnet di viaggio, Un ottimista in America è una raccolta di impressioni tratte dal diario che Italo Calvino tenne dal novembre del ’59 al maggio del ’60, durante il suo primo grande viaggio negli Stati Uniti.
Partito con un fermo auto-divieto – «non scrivere un libro sull’America: ce n’è già tanti!» – Calvino finisce col ricredersi, e persuaso del fatto che i testi di viaggio costituiscano un modo «utile, modesto e pure completo» di fare letteratura, matura il progetto di realizzare una sorta di Viaggi di Gulliver. La prospettiva straniata che regge l’opera di Swift, infatti, si ritrova nell’approccio che Calvino nutre nei confronti dell’America, ad esempio nelle sue descrizioni dei grandi supermercati – «l’abbondanza dell’America a portata di massaia» – in cui si gira tra un banco e l’altro come per le vie di una città, spingendo avanti «il cestino di ferro a ruote». Del resto, secondo Calvino, si può raccontare genuinamente un Paese solo quando se ne sa poco o nulla, perché chi ci abita da tanto tempo ha ormai perso l’immediatezza necessaria per descriverlo: tutto è dato per scontato, tutto è consueto e quotidiano.
Armato dell’atteggiamento che a suo parere deve animare un buon viaggiatore – partire da profano e farsi raccontare un Paese dalle persone che lo abitano – Calvino atterra a New York, una città che finisce per adorare, nonostante tutte le sue contraddizioni etiche e nonostante costituisca un mondo a parte rispetto al resto degli Stati Uniti – e risulti per tanto assai poco paradigmatica. Una delle prime domande che il nostro Gulliver si pone è infatti: «L’America è americanizzata?». Se si pensa a New York, città della borsa e dell’editoria, «l’unico angolo dell’universo dove la Coca-Cola non ha fatto breccia», la risposta è sicuramente negativa. L’America minore, invece, mantiene le sue promesse: i biliardini e i tiri a segno elettronici, quelli che per l’Italia dell’epoca costituivano i simboli dell’americanizzazione, corrispondono in realtà «all’America più provinciale e proletaria».
Con lo stesso spirito curioso e straniato Calvino si muove da nord a sud per gli States. Adora Charleston, dalle case settecentesche, e Savannah, rimasta miracolosamente intatta dai tempi del cotone. Frequenta i bar di una New Orleans decadente, putrefatta ma viva, in cui non si sa più bene «cosa è vero e cosa è di Faulkner», mentre San Francisco è descritta come una sorta di Ultima Tule in cui il New York Times arriva tre giorni dopo.
Il razzismo degli Stati del sud produce su di lui un’impressione più forte di quanto non avesse pensato: sono questi i passaggi in cui si lascia andare a considerazioni più emotive, abbandonando per un attimo la freddezza da osservatore esterno nel Paese dei Lillipuziani.
Alle impressioni a caldo e agli aneddoti della gente del luogo, si accompagnano riflessioni più generiche sull’american way of life, spesso imbastite a partire da assiomi lapidari – «l’America non possiede il senso dell’antitesi» – e che spaziano dal sempre verde mito del denaro e del successo all’analisi della religiosità, incarnata da quello che lui chiama «lo spirito teocratico degli Stati Uniti», una forma mentis paradossalmente monoteista, opposta all’Europa dal retaggio classico, che crede nella dialettica dei contrari anche quando incappa nell’assolutismo e nel totalitarismo. Una differenza che si avverte palpabile appena Calvino, alla fine del viaggio, rimette piede su suolo parigino: l’America pragmatica e rampante da un lato, dall’altro la vecchia Europa, «con il suo tradurre instancabile in concetti il mondo delle cose».
“Un ottimista in America” di Italo Calvino (Mondadori, pp.235, 18 euro)